Patria e pallone, la Croazia sogna i nuovi Modric
IN CROAZIA IL CALCIO È PIÙ DI UN SOGNO PER TANTI È (QUASI) UN’IDENTITÀ
Un piccolo Brasile sull’adriatico. Ogni weekend si giocano 9 mila partite tra ragazzini. Tutti cresciuti a pane e calcio. La Croazia. Le tradizioni. Il futuro di un Paese aggrappato all’europa. Anche se in otto anni ha perso oltre 200 mila abitanti: tutti emigrati.
Dopo la finale dei Mondiali in Russia i calciatori della Nazionale sono diventati il simbolo della Croazia. Nessun altro Paese esporta così tanti giocatori in Europa. Un’industria. E un orgoglio per tutti Ma il legame con il passato nazionalista (e le guerre) non è mai finito
Bartol, 5 anni, agita una sciarpa a scacchi bianchi e rossi. Da un gelido seggiolino del vecchio Maksimir di Zagabria si volta verso suo padre Bruno e grida: «Papà, sono ricco!». Poi si spiega meglio: «Sì papà, perché mi hai portato qui con te, con i nostri amici, a vedere la partita della nostra squadra... sono ricco!». Per «Bato» il 21 marzo è un giorno speciale: la prima volta allo stadio, a vedere la Croazia vicecampione del mondo sfidare il modesto Azerbaigian. Sognava questa serata dalla scorsa estate: è lì che si è innamorato dei «Vatreni», i «focosi», sconfitti ai Mondiali solo all’ultimo atto da un avversario, la Francia, che ha sedici volte la loro popolazione e quarantotto volte il loro Pil. Mezzo milione di persone aveva accolto il ritorno dei giocatori per le strade di Zagabria. In quel rovente pomeriggio di luglio tra cori, bandiere e fumogeni, un papà teneva sulle spalle il suo bambino. «Li abbiamo aspettati sette ore», racconta Bruno stremato al solo ricordo, «poi finalmente il pullman della squadra ci è passato davanti e Bato ha incrociato lo sguardo di Modric: è stato il giorno più felice della sua vita».
Quel giorno i croati hanno chiuso un cerchio lungo vent’anni. Nell’estate 1998, dopo un’infanzia da rifugiato in un hotel di Zara, il 13enne Luka Modric ammirava in tv la neonata nazionale a scacchi, incredibile semifinalista ai primi Mondiali di calcio della sua storia, trascinata dai gol di Suker e dalle giocate di Boban. A loro, i suoi idoli d’infanzia, quest’inverno Modric ha dedicato il Pallone d’oro. «Eravamo un Paese giovane appena uscito dalla guerra, nello spogliatoio non si parlava d’altro — ricorda Dario Simic, ex difensore di Milan e Inter protagonista di quell’impresa —. Sentivamo una responsabilità enorme oltre lo sport, volevamo fare qualcosa di importante per la gente». Le sofferenze del conflitto erano diventate uno stimolo sportivo. Che si univa all’inat, la naturale voglia dei croati di competere e prevalere
sugli avversari in ogni campo, quasi per dispetto. «Durante i viaggi in pullman — rivela Ciro Blazevic, 84 anni, leggendario commissario tecnico di quella squadra — mostravo ai giocatori le videocassette con le immagini dei combattimenti. Poi li spronavo: “La nostra gente è andata a morire per la Croazia, e voi ve la fate sotto per una tacchettata in testa?”». I giocatori di quella prima generazione d’oro di ex jugoslavi diventati croati avevano fame di far conoscere il loro Paese, finalmente indipendente, al resto del mondo. «Il nostro patriottismo ci aiuta. Forse per altri scendere in campo per la propria nazionale è solo un modo per giocare. Per noi — assicura Simic — è qualcosa di diverso. Il Mondiale 2018 ha confermato che il nostro successo non fu un caso: siamo dei super talenti per il calcio».
Il talento, in Croazia, hanno imparato a coltivarlo e a farselo pagare. Come fa Dennis Gudasic, nato in Australia e trasferitosi qui nel ‘91 «per combattere al fianco del mio popolo» in
Ho avviato un progetto di «rebranding» della Croazia: tanti ci identificano ancora con la guerra, invece abbiamo molti talenti, non solo nel calcio, che il mondo presto conoscerà Kolinda Grabar-kitarovic presidente croato
una guerra superata ma mai dimenticata. Oggi è direttore esecutivo della Lokomotiva, la seconda squadra della capitale. Non proprio il Real Madrid: tre campi sintetici in periferia, un bar fumoso e uno spogliatoio da serie C italiana. Ma anche un marchio di fabbrica: qui i giovani diventano calciatori veri. «L’unico modello di business di tutte le squadre croate — ammette Gudasic — è crescere ed esportare campioni, non c’è un piano B. Siamo condannati a produrre per gli altri e a vendere». Per forza: il campionato ha solo dieci squadre, si gioca in stadi vecchi e semivuoti, gli sponsor pagano poco e le televisioni non investono per trasmettere le partite. Un sistema arretrato e in affanno che la Federazione non ha aiutato a guarire. Ma l’industria va avanti perché qui c’è la materia prima.
Il richiamo dell’europa
È un piccolo Brasile sull’adriatico. «Ogni weekend si giocano 9 mila partite tra ragazzini, ma il Paese è compatto e per i nostri scout individuare i più bravi è facile». Trovato un diamante, va sgrezzato. Chi ha le capacità e lavora sodo arriva nella massima serie a 18 anni e si confronta subito con i professionisti: «Qui non abbiamo tutti gli stranieri dei grandi campionati europei: c’è più spazio per i nostri». Come Luka Ivanusec, 20 anni, stella della Lokomotiva, più giovane croato di sempre a segnare un gol in Nazionale: presto s’immagina «in Italia o in Spagna». Tanti non vedono l’ora di seguire le orme di Mandzukic e Modric. Bisogna però capire quand’è il momento di andare. Senza fretta. Vizio che spesso hanno i genitori, in un Paese che non naviga nell’oro: «Molti provengono da famiglie modeste che guadagnano 600, 700 euro al mese, e vedono i figli come un’occasione per svoltare. Proprio oggi ci è arrivata un’offerta dal Sassuolo per un 16enne: ho faticato per convincere i suoi che è troppo presto per andar via. Lì, così acerbo, sarebbe solo uno dei tanti».
È il problema e la fortuna della Croazia: il richiamo dell’europa, il sogno di tutti. Tra il 2011 e il 2018 il Paese ha perso oltre 200 mila abitanti: tutti emigrati. Anche i calciatori: soltanto uno dei 23 eroi di Russia 2018 giocava ancora in Croazia, il terzo portiere. A parte l’uruguay, non c’è un Paese così piccolo che abbia mandato all’estero più giocatori della Croazia. Una vera miniera. Ma i dirigenti croati ammoniscono i ragazzi più giovani con una statistica: «Chi non gioca almeno 3 anni nel nostro campionato, quando va via fa molta più fatica». In questo l’unione europea, raggiunta nel 2013, è stata un’arma a doppio taglio: «Ci ha aiutato —