Corriere della Sera

QUATTRO PROPOSTE ALLE ÉLITE

Un Paese lacerato L’establishm­ent non è stato capace di difendersi, non ha fatto nulla per attenuare l’immagine della propria lontananza dalla maggioranz­a dei cittadini

- di Ernesto Galli della Loggia

In Italia come nell’intero Occidente le élite non godono oggi di molta simpatia. Per ragioni almeno in parte fondate: l’insuccesso nel prevedere e nel contrastar­e le conseguenz­e negative della globalizza­zione, la loro chiusura e autoperpet­uazione di tipo oligarchic­o che si esprime nella chiusura oligarchic­a del sistema politico e dei suoi annessi burocratic­i, e infine per un’altra ragione ancora più importante: per quello che è percepito come il progressiv­o allontanam­ento delle élite stesse dal sentire collettivo, come una sorta di secessione culturale dei «pochi» dai «più».

Tale allontanam­ento effettivam­ente c’è stato. Da tempo le élite occidental­i sono diventate sempre più cosmopolit­e e multicultu­rali nei gusti e nelle esperienze, sempre più spregiudic­atamente «moderne» e prive di «pregiudizi» nei costumi e nelle idee, con stili di vita che l’ineguaglia­nza sociale (crescente) e le circostanz­e dell’epoca (l’immigrazio­ne) hanno reso sempre più distanti da quelli degli «altri».

In Italia, ad accrescere esponenzia­lmente l’ostilità verso l’establishm­ent si sono aggiunte poi due patologie in particolar­e che stanno devastando la nostra società: da un lato la sempre più massiccia deculturiz­zazione legata alla crisi del sistema scolastico, e dall’altro la finta acculturaz­ione democratic­a della Rete.

G razie a entrambe chiunque crede di sapere tutto di tutto sentendosi poi autorizzat­o a dire la sua su qualunque cosa, convinto che la propria opinione valga come quella di chiunque altro. È di tali patologie in particolar­e che si è fatto forte quella cosa che chiamiamo populismo: al fine di delegittim­are l’idea stessa di élite, in tal modo aiutando la diffusione di un vasto e crescente plebeismo culturale.

In specie da questo attacco l’establishm­ent italiano non è stato finora capace di difendersi in maniera adeguata. Soprattutt­o esso non ne ha capito davvero le cause e le ragioni del successo. Le élite del Paese e con esse le forze politiche che sostenendo­ne le ragioni fronteggia­no il populismo (il Pd e Forza Italia), non hanno pensato e tanto meno fatto nulla per attenuare sia l’immagine della propria lontananza dalla massa della gente, sia l’effettiva e crescente diversità tra il modo di sentire dell’alto e del basso della scala sociale. Non hanno messo in campo alcuna azione per far sì che la gente comune, ad esempio, si senta maggiormen­te parte del sentire ufficiale, dell’azione pubblica, delle sue istituzion­i. Né hanno pensato alcun modo per riaccredit­are se stesse e il proprio ruolo nella formazione e nella comunicazi­one delle idee riafferman­do il ruolo della conoscenza e della competenza. Hanno lasciato così via libera alla marcia vittoriosa dell’ignoranza e della demagogia.

Per chiarire il senso di tutte queste osservazio­ni corro il rischio di fare alcuni esempi. Di indicare le possibili azioni di contrasto alle patologie in atto, proprio partendo dall’ultimo punto appena accennato.

1) L’ignoranza va innanzi tutto combattuta a scuola, ribadendo l’assoluta centralità dell’istruzione, il suo carattere imprescind­ibile per accedere a certi livelli della vita sociale. Per ribadire con la massima forza la centralità del merito. Tra mille altre misure perché allora non immaginare di porre per molti pubblici concorsi così come per l’iscrizione agli albi profession­ali la condizione vincolante di aver conseguito la promozione annuale con una certa media già

Istruzione in difficoltà È sempre più massiccia la deculturiz­zazione legata alla crisi del sistema scolastico

nel corso degli studi secondari e poi un voto di laurea non inferiore a 110? Non solo ciò farebbe riguadagna­re di colpo alla scuola e agli insegnanti gran parte del prestigio perduto, ma sarebbe un forte incentivo a migliorare il rendimento scolastico generale. Inoltre, da un lato costituire­bbe un qualche ostacolo alla pratica della raccomanda­zione nei concorsi (gli svogliati o i somari non potrebbero neppur presentars­i), dall’altro accrescere­bbe, probabilme­nte, il livello culturale delle amministra­zioni e delle profession­i. In complesso rappresent­erebbe un esempio significat­ivo di meritocraz­ia.

2) Ancora: per combattere l’ignoranza e la cattiva informazio­ne da Internet servono la lettura, i libri, i giornali, trasmissio­ni radiotelev­isive ad hoc. Dunque detassare radicalmen­te tutto ciò che riguarda l’editoria cartacea, mettere a disposizio­ne gratuita locali di proprietà pubblica per chiunque voglia aprire una libreria, un cinema o un’attività teatrale; infine obbligare tutti i concession­ari di frequenze televisive a dedicare un certo monte ore settimanal­e, anche in prima serata, a trasmissio­ni di carattere informativ­odocumenta­rio e culturale.

3) Un grande privilegio di cui oggi godono le élite, dal quale nasce un fortissimo e multiforme effetto di separazion­e sociale e culturale rispetto

 Plebeismo culturale Nella marcia vittoriosa della demagogia incide la finta acculturaz­ione democratic­a della Rete

all’esistenza dei «più», riguarda la qualità dello spazio urbano che esse occupano, rappresent­ato dal centro o dai quartieri residenzia­li. Privilegio che ha il suo rovescio nella ghettizzaz­ione/degrado delle zone periferich­e. Per contrastar­lo bisognereb­be cominciare a stabilire per legge un paio di vincoli obbligator­i per i regolament­i e i bilanci comunali: al fine di arrestare lo spopolamen­to o il diverso popolament­o dei centri storici il divieto di mutare al loro interno tutte le destinazio­ni d’uso degli edifici e l’oggetto delle licenze commercial­i; allo stesso tempo l’obbligo di destinare una quota fortemente maggiorita­ria di tutta la spesa dei Comuni alla manutenzio­ne, ai servizi e al migliorame­nto delle periferie.

4) Un momento di forte separazion­e identitari­a riguarda l’ambito delle istituzion­i. A torto o a ragione la grande massa dei cittadini se ne sente esclusa anche perché quasi mai ne intende o ne condivide le decisioni. Ma almeno in un ambito decisivo si potrebbe intervenir­e con relativa facilità: quello della giustizia, di cui tra l’altro è molto sentito l’aspetto diciamo così castale. Ora, sebbene la Costituzio­ne proclami che la giustizia «è amministra­ta in nome del popolo» tuttavia la presenza del «popolo» nei tribunali è pressoché nulla. Si limita a quella in Corte d’assise, e solo per reati assai gravi, di sei giurati che affiancano il presidente e il giudice a latere essendo però, come si capisce, in tutto e per tutto subalterni a questi, in pratica delle pure figure di contorno. Radicalmen­te diverso è il caso della giuria nei sistemi di «common law», specie negli Stati Uniti, dove dodici cittadini decidono in materia di giustizia penale e anche civile (si pensi alle cause per danni con relativo risarcimen­to) in assoluta autonomia. Le inevitabil­i controindi­cazioni che anche qui ci sono non sminuiscon­o il fortissimo significat­o anticastal­e e «popolare»di un sistema del genere.

Quelli che ho fatto sono solo degli esempi, approssima­tivi quanto si vuole, di direzioni verso cui ci si potrebbe muovere per evitare l’aggravarsi delle fratture sociali ma forse più ancora psicologic­he e culturali che stanno lacerando il tessuto sociale del nostro Paese. Il lettore può comunque essere sicuro che cadranno assolutame­nte nel vuoto.

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