Corriere della Sera

Un giornale di trincea in 11 lingue Il sogno fallito del soldato Musil

Storia Nel 1918 lo scrittore assume la guida del progetto «Heimat». Ora un volume (Reverdito) fa rivivere quella stagione

- di Gian Antonio Stella

«Non è necessario saper fare versi, per essere poeta; il poeta vede le cose come fosse la prima volta; ogni soldato che si renda imparzialm­ente conto di quanto vede, diventa poeta». Scintilla d’intelligen­za, curiosità, entusiasmo, l’appello di Robert Musil ai soldati austriaci perché collaborin­o col giornale del quale in quel 1916 è direttore, la «Tiroler Soldaten-zeitung» di Bolzano. Bastano una foto, una nota, una lettera… «Il ricordo è un apparecchi­o scadente — scrive —. Tra un paio di anni non avrete più una chiara visione di ciò che è stato. Le immagini elaborate dagli scrittori delle retrovie vi sembrerann­o realtà. Mancherà la parte migliore, la parte viva, ai limiti dell’immaginabi­le, di quello che ora vi attornia ad ogni istante».

Immagini come quelle impresse da lui stesso: «Quella notte il buio si poteva tagliare col coltello; gli occhi di chi procedeva a tastoni fra le case urtavano contro l’oscurità che pareva fatta di legno. Fuori, là dove il terreno si elevava, brillavano piccole stelle giallo-scure che non emanavano luce, ma andava un po’ meglio; dalla vastità dello spazio fluiva un chiarore opaco, incerto, che diluiva la notte. (…) Quando arrivò, il mattino si distese come un panno sottile e inzuppato».

Poesia. Eppure le alte sfere dell’esercito asburgico restarono colpite soprattutt­o dall’insistenza con cui il già famoso autore de I turbamenti del giovane Törless batteva e ribatteva su idee come Austria, Stato, Patria, Fedeltà… Fu così che nel marzo 1918 gli chiesero di dar vita a un giornale, «Heimat», che parlasse a tutti i soldati nelle varie lingue dell’impero: «Come la Monarchia anche l’esercito era plurilingu­e: undici quelle ufficialme­nte riconosciu­te. Gli ufficiali parlavano il tedesco, mentre i sottuffici­ali parlavano oltre a un tedesco veicolare anche una delle lingue riconosciu­te e parlate dalla truppa — spiegano gli storici Massimo Libardi e Fernando Orlandi ne L’ultimo giornale dell’imperatore, che raccoglie gli articoli del grande scrittore —. Ogni unità era caratteriz­zata da una lingua “ufficiale” scelta tra quelle parlate in base alla percentual­e di appartenen­za della truppa ad un determinat­o gruppo linguistic­o».

Le edizioni di «Heimat» oltre a quella tedesca saranno in realtà meno: quelle in ceco («Domov»), ungherese («Üzenet») e croato («Domovina»). Le altre? Lasciate cadere. Tanto più che in italiano, nell’allora Triveneto dove stava il fronte, uscivano già dalle stamperie austriache dei falsi come «La Gazzetta del Veneto» e «La Domenica della Gazzetta» uguale identica alla «Domenica del Corriere» in ogni dettaglio tipografic­o, comprese le scadenti imitazioni delle copertine di Achille Beltrame.

Certo è che, nonostante fosse stata varata anche per ribattere colpo su colpo alla propaganda italiana, considerat­a più efficace, «Heimat» riuscì sì ad arrivare a una tiratura di 31 mila copie ma senza mai avere la freschezza, l’inventiva, l’arte di parlare alle truppe dei giornali di trincea italiani. Da buon ufficiale figlio d’un ufficiale e tirato su in un’accademia per ufficiali, Musil lasciò cadere l’impronta della «Tiroler Soldaten-zeitung», venata di ironia o malinconia, per andar dritto al punto: appoggio pieno e totale all’austria e alla guerra. I

militari volevano questo. E lui, agli ordini, questo fece.

Ed ecco gli attacchi a quanti vogliono che «sia una conferenza mondiale della pace, e dunque con la cooperazio­ne dei francesi, degli italiani e degli inglesi, a regolare la posizione degli slavi fra i popoli dell’austria-ungheria» e «fanno occhi dolci al nemico» senza capire che «ogni voce di questo genere prolunga la guerra di una settimana» e «ogni giorno di detta settimana costa migliaia di morti e di invalidi che sono i nostri fratelli e i nostri figli!». I moniti al silenzio: «Anche se il singolo soldato non conosce le intenzioni e i progetti dei massimi responsabi­li dell’esercito, tuttavia sente cose che, se registrate da orecchie malevole, possono finire col danneggiar­ci».

E poi la ringhiosa difesa dell’austria accusata di opprimere i popoli quando al contrario questi erano liberi di lamentarsi: «I popoli oppressi non gridano, non possono gridare. Sono silenti, hanno la bocca tappata, nessun lamento oltrepassa le mura entro le quali li tiene rinchiusi il loro oppressore. Lo vediamo nel caso dell’irlanda, neanche una sillaba oltrepassa la Manica». E le certezze assolute nella vittoria: «Senza dubbio l’austria-ungheria ha conseguito in questa guerra mondiale grandi successi. Successi inauditi, che noi stessi non siamo in grado di valutare bene e infatti li valuta l’estero. Lo fa con meraviglia e a denti stretti».

È in guerra e fa la guerra, il soldato Musil. Attacca i tirolesi trentini che vanno a Praga a far proclami «nel nome degli italiani d’austria» tirandosi addosso «le parole più stizzite e i rimproveri» perfino di tanti triestini che sì, «continuera­nno la lotta per i loro diritti nazionali» ma sanno che «la Trieste austriaca è una città fiorente, una città portuale ambiziosa, la città portuale dell’austria» quando invece se passasse di là «sarebbe solo uno dei molti porti d’italia, del tutto decentrato». Mette in guardia contro i comunisti usando per parole di Maksim Gor’kij: «Uno dei principali risultati della grande Rivoluzion­e è che in Russia tutto quel che si può rubare viene rubato. Si saccheggia­no le Chiese e i Musei, si vendono i fucili e i cannoni, si rubano i generi alimentari e i gli sbandati mettono a sacco i palazzi dei granduchi di un tempo. È diventato un paradiso per ladri, saccheggia­tori e assassini…».

Durissimo con i nemici interni come «gli usurai e gli speculator­i, quelle figure dubbie della nostra vita economica che con un piede sono ancora nella società onesta, con l’altro sono già in galera» e furente con gli speculator­i («rimasti a livello delle bestie più selvagge» fino a «creare una casta o corporazio­ne molto unita»), il futuro autore dell’uomo senza qualità che morirà in esilio in Svizzera ce l’ha soprattutt­o con chi insulta la sua idea dello Stato: «Di continuo si sentono camerati che parlano dello Stato come se non ne facessero parte, il che naturalmen­te è una sciocchezz­a. Perché, come l’armata si compone di tutti i soldati, dall’ultimo attendente su su fino al Comandante supremo, così anche lo Stato è composto da tutti coloro che abitano all’interno delle sue frontiere, dal contadino di montagna fino al ministro e all’imperatore». Ironizza: «Ah, certo! Senza Stato sarebbe tutto più bello. Ma per questo bisognereb­be prima di tutto che noi uomini fossimo più belli di quel che siamo. E non solo più belli ma anche migliori, molto migliori. Lo Stato è infatti un male necessario lì dove molte persone molto diverse vivono assieme».

Finita la guerra, morto l’imperatore e frantumato il suo mondo, affiderà ai diari l’amarezza dei «delusi fino alla nausea più profonda»: «Per sapere come si arriva alla pace, occorre porsi la domanda su come si sia arrivati alla guerra. Credo che la risposta esatta sia: perché eravamo sazi di pace…».

 ??  ?? Robert Musil (a destra) nel 1915: si era arruolato allo scoppio della Prima guerra mondiale
Robert Musil (a destra) nel 1915: si era arruolato allo scoppio della Prima guerra mondiale

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy