Magie meticce e promesse di vita Dove la latitudine segna zero
Esce oggi per Cairo Editore «Equatore»: il racconto di Vittorio Russo in Ecuador, da Quito alle Galápagos
AMitad del Mundo, in Ecuador, un monumento segna il punto in cui la latitudine è pari a zero: qui passa la linea dell’equatore, il parallelo massimo e alla massima distanza dal centro della Terra. Per un ex navigatore come Vittorio Russo incrociare questa linea è un momento solenne, perché gli ricorda il battesimo di iniziazione che i giovani dell’equipaggio subivano quando le navi si trovavano ad attraversarla. Da questa linea immaginaria si parte insieme all’ex Capitano di lungo corso che, nel suo volume Equatore (Cairo), racconta un viaggio attraverso il Paese sudamericano, da Quito a Guayaquil, fino alle Isole Galápagos.
Come una porta aperta su un universo sensoriale, suoni e odori entrano nella narrazione: è la magia del racconto di viaggio, né guida, né romanzo, ma un’escursione di parole — raccontata da Russo con suggestioni e ricostruzioni storiche — fin dentro il cuore di un popolo. E dal mercato di Otavalo comincia questo racconto (anche) antropologico, tra il vociare della folla, massa di volti duri, modellati dalle intemperie, lineamenti meticci su cui si intesse la storia del sangue di ispanici bianchi, di ex schiavi neri e dei popoli nativi di cui oggi non resta quasi traccia. Il mercato, luogo «di conoscenza e di vita», zuppo di dialetti, dice molto di questa gente «che veste l’aria dei colori più vivi, colori che si fanno forma: azzurri andini, rossi striati di ibisco, verdi di uccelli tropicali, bruni di terra bagnata».
C’è un altro aspetto che descrive la cultura di un popolo. È qualcosa al tempo stesso di universale, che accomuna l’uomo nella simbologia primitiva, ma che si differenzia nella forma: la fede. In Ecuador il sacro è ancora legato al
quotidiano; la prima legge è quella della natura, temibile Parca che recide il filo di vita e morte. Per esempio Quito, la capitale, è adagiata fra le due cordigliere andine, lungo le pendici del vulcano Pichincha, terribilmente attivo. Vivere a stretto contatto con la sua realtà ha trasformato la paura degli abitanti in preghiera: pichincha è diventata una parola comune, buon affare. Lo si esorcizza per scongiurarne la potenza mortifera. In questo Paese il sincretismo — il cristianesimo importato dai conquistadores spagnoli e le antiche credenze andine — si fonde nei rituali di maghi e fattucchieri, nelle chiese dorate in stile churrigueresco e nelle storie che si portano dietro, quelle di violenze perpetuate in nome di un dio, imposto dai conquistatori, che decapitarono «una civiltà di cui ignoreremo per sempre gli orizzonti». E lo si ritrova anche nella testimonianza dei manufatti di culto, raccolti nei musei: divinità orrifiche, simboli fallici o antropomorfi scongiurano l’angosciosa paura dell’ignoto: il cosmo. La violenza della natura che tutto può rispetto all’uomo.
Quello che Russo riesce a raccontare in modo ancora più toccante è l’altro aspetto della natura, quello della meraviglia («non è né madre, né matrigna. Non ha colore, non ha forma, non ha sesso. Semplicemente è») che questa terra, come pochi altri luoghi al mondo, riesce a conservare: «Il paradiso perduto dell’evoluzione passata». L’eternità. Il viaggio giunge nelle Galápagos, le isole che permisero a Darwin di formulare la teoria dell’evoluzione grazie allo studio delle testuggini, i fringuelli, le iguane e la straordinaria flora che l’autore descrive come una bellezza che libera «dall’anestesia della razionalità». È qui che si percepisce la magia dell’evoluzione, quasi impensabile da comprendere per l’uomo moderno. «Tutto (...) richiama echi di vita remota che è pure una promessa di vita futura racchiusa com’è nella pienezza di quello che mi circonda».
Laggiù, dove la Terra sbuffa ancora i suoi remoti respiri e dove la legge dell’uomo si piega a quella naturale, termina il cammino. Noi lo abbiamo seguito con gli occhi, ma è solo compiendolo, il viaggio, che riusciamo nella più grande esplorazione, quella di noi stessi, delle nostre radici. Ancorate un po’ ovunque nel nostro pianeta; anche là, nel punto di massima distanza dal centro della Terra.