Il dolore privato di Zain per raccontare un’odissea
Cafarnao, nome di una città inferno maledetta da Gesù nei Vangeli, racconta la non epica odissea di un 12enne per le strade più sporche di Beirut, fra gli individui più loschi, nelle situazioni più umilianti in un flashback che parte e torna nel tribunale dove il ragazzo si deve difendere dall’accusa di aver accoltellato un uomo.
All’inizio del potente film di Nadine Labaki, straziante e raziocinante insieme, premio a Cannes, il piccolo Zain dagli occhi senza speranza denuncia i propri genitori con l’accusa (semiesistenzialista) di averlo messo al mondo. Neanche fosse Camus: nato inutilmente, dice, fra povertà, difficoltà, insulti alla dignità. Tutto sulla pelle viva di persone prese dalla strada. L’avvio stordisce per il colpo di gong che annuncia alla nostra coscienza:
non è ricattatorio perché allora lo sarebbe anche la maggior parte del neo realismo con ragazzini tra macerie morali e materiali. Zain, nella vita profugo siriano che ora vive in Norvegia e, ritrovata la sua età va a scuola, percorre nel film le baraccopoli di Beirut, badando a un neonato che la madre etiope senza documenti ha abbandonato mentre la regista sulle ali di musica, dei droni e ralenti, si alza su un panorama infinito morale scomparso, murato vivo per i molti invisibili senza patria.
Zain Al Rafeea è la ragione etica del film, lo sostiene come se avesse frequentato l’actor’s Studio: invece viene tutto da un dolore privato che i suoi occhi raccontano dallo schermo.