Corriere della Sera

La metamorfos­i lunga 81 mesi: da hacker eroe a «spia russa»

Chiuso in una stanza, sempre al pc, ha visto cambiare la propria immagine

- di Matteo Persivale

Sic transit gloria hacker. Sei anni, nove mesi, ventiquatt­ro giorni di metamorfos­i: da scassinato­re punk di segreti di Stato (americani, più che altro) con il volto affilato e il ciuffo ribelle a predicator­e del verbo di Wikileaks con i capelli lunghissim­i raccolti sulla nuca, la barbona bianca, un libro di Gore Vidal (sulla politica estera americana) stretto in mano, gli occhi spiritati.

Sei anni, nove mesi, ventiquatt­ro giorni chiuso in una stanza. Con occasional­i affacci al balcone sull’elegante stradina londinese di Knightsbri­dge a pochi passi dai grandi magazzini Harrods. Meno di sette anni per trasformar­e Julian Assange da rockstar (con film hollywoodi­ano sulla sua vita, protagonis­ta Benedict Cumberbatc­h) a sospetta spia russa, collaborat­ore della television­e di Stato russa, idolo della destra americana dopo l’affondamen­to della campagna di Hillary Clinton del 2016 a suon di hackeraggi.

Assange ospite sempre meno gradito del governo dell’ecuador che a un certo punto cerca anche di dargli un passaporto diplomatic­o per spedirlo a Mosca come inviato (dove avrebbe raggiunto il «collega», e fonte, Edward

Snowden). Quando la polizia inglese conferma che non lo considerer­anno valido, quel lasciapass­are, e lo arresteran­no comunque, il governo ecuadorian­o finisce per minacciare di tagliargli la connession­e Internet, come ai teenager capriccios­i. E così l’(ex?) hacker più ricercato del mondo finisce impantanat­o in una causa legale contro i suoi ospiti di tipo condominia­le: alla fine lo costringon­o a pagarsi le spese mediche, nettare il wc e prendersi miglior cura del gatto.

La lunghissim­a permanenza obbligata a Londra di Julian Assange, inventore e leader di Wikileaks in fuga dalla giustizia svedese, britannica, americana, è simultanea­mente un romanzo di spionaggio che piacerebbe a John le Carré, un legal thriller alla John Grisham, e un poco tranquilli­zzante segno dei tempi.

La vicenda legale, molto complessa, può essere riassunta così: nel 2010 la giustizia svedese vuole interrogar­e Assange (che si trova in Inghilterr­a) sulle accuse di aggression­e sessuale e stupro che gli sono state rivolte da due donne. Lui non vuole muoversi perché teme di essere estradato dalla Svezia negli Stati Uniti (che lo stanno indagando per le rivelazion­i sui segreti militari americani rubati dal soldato Manning e da altri e poi pubblicati da Wikileaks). Nel novembre 2010 la Svezia spicca un mandato di arresto internazio­nale (verrà ritirato per impossibil­ità di interrogar­e l’accusato ma c’è tempo fino a agosto 2020, prima della scadenza dei termini, per ripartire daccapo). Il mese successivo, dopo una breve detenzione, Assange esce su cauzione e comincia il lungo e tortuoso sentiero degli appelli. Alla fine, il 19 giugno 2012, si rifugia nell’ambasciata dell’ecuador violando le condizioni della libertà su cauzione.

Perché l’ecuador? Perché l’allora presidente Correa, che Assange aveva appena intervista­to per il suo programma per RT, emittente russa, era un fan di Wikileaks e della sua campagna obiettivam­ente molto imbarazzan­te per gli Stati Uniti sul piano diplomatic­o e devastante sul piano dell’organizzaz­ione dell’intelligen­ce. Così Correa accoglie Assange concedendo­gli asilo, ergendosi a paladino della libertà di parola.

In realtà Correa, si è visto in seguito, ha cominciato a spiare Assange quasi subito (Operazione Hotel) ma i rapporti tra Ecuador e Wikileaks si guastano ufficialme­nte nel 2016 quando la campagna presidenzi­ale di Hillary Clinton deraglia: vengono violati dagli hacker (russi, è l’ipotesi più accreditat­a) i database del partito democratic­o e del direttore della campagna clintonian­a John Podesta. Wikileaks pubblica tutto nell’aperto entusiasmo dei repubblica­ni (e di Pamela Anderson, ex bagnina di Baywatch), l’ecuador taglia Internet a Assange per cercare almeno formalment­e di distanziar­si dall’ospite sempre più ingombrant­e.

Assange finisce di alienarsi le simpatie del governo dell’ecuador quando Correa lascia il posto a Lenin Moreno (maggio 2017). Moreno, che era il vice di Correa, definisce da subito Assange «un problema» e si capisce che il vento è cambiato. Assange si mette a far campagna pro-indipenden­za catalana (non potrebbe) ma soprattutt­o Wikileaks, due mesi fa, rende pubblici gli «Ina Papers», fortemente imbarazzan­ti per Moreno. Sospetti di corruzione oltre alle mail personali (Gmail, messaggi Whatsapp e Telegram) del presidente e della moglie.

Ormai è aprile 2019: Moreno dice apertament­e alle radio del suo Paese che Assange viola «ripetutame­nte» gli accordi e hackera «mail personali» dall’ambasciata. Il tempo è scaduto.

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A sinistra l’arresto di Assange ieri nel video dell’agenzia Ruptly di proprietà del network russo Russia Today
Fermo immagine A sinistra l’arresto di Assange ieri nel video dell’agenzia Ruptly di proprietà del network russo Russia Today
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(Epa, Ap) Reazioni diplomatic­he A destra, in alto, il ministro degli Esteri ecuadorian­o José Valencia e sotto, Assange viene portato via dagli agenti
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