Aquaro, il giornalista generoso innamorato delle persone e dei fatti
Nell’identikit su Twitter ha scritto: «Ogni riferimento a fatti o persone è puramente fattuale o personale». In quella frase c’è la sua ironia, il suo giocare con le parole, il suo modo di essere: Angelo Aquaro ha rincorso e raccontato per tutta la vita fatti e persone. Con passo leggero. Li ha rincorsi come giornalista instancabile, su e giù per l’italia e in giro per il mondo: da Martina Franca, dov’era nato nel 1965, alla Milano dei settimanali popolari passando per la Gazzetta di Parma. Dal Corriere della Sera alla Repubblica, dove è stato tra l’altro vicedirettore, inviato a New York, corrispondente a Pechino. Le cariche e i luoghi non hanno mai avuto molta importanza. Per lui contavano le persone e i fatti. Da scoprire, collegare, mettere in scena. In una parola: contavano i giornali. In
Angelo Aquaro, nato a Martina Franca nel 1965, aveva lavorato per anni al «Corriere» tutte le forme: senza nostalgia, con la curiosità di un ragazzo, ha sempre abbracciato il nuovo senza smettere di guardare al passato. Carta, ebook, tv digitale e mercatini dei libri usati, social e pubblicazioni introvabili che d’incanto comparivano nella sua libreria. Per lui il rigore non è mai stato sinonimo di noia, Alexa e le nuove tecnologie potevano anzi dovevano convivere con la passione della memoria. Mentalmente non si sedeva mai, era sempre un po’ più avanti, anche quando stava incollato alla scrivania. A New York scriveva in piedi, su una specie di buffo leggio. Nella sua casa di Roma ha scritto cose bellissime sulla musica, ascoltandola di notte dopo serate passate in redazione, per confezionare in tempo una recensione onesta sull’ultimo gruppo figo scovato chissà dove. Un uomo generoso, che non pensava male del prossimo. Uno che arrivando in un posto, fosse Milano o Haiti o l’ultimo dei paesini, aveva la cultura e l’umiltà di diventarne subito parte, pur restando osservatore distaccato e nomade dentro. Aveva la capacità di farsi amare, anche sul lavoro, anche nel lavorio continuo di chi rincorre fatti e persone. Angelo ha beffato la malattia abbracciandola fino all’ultimo, come un pugile astuto e sfinito che abbraccia l’avversario all’angolo del ring: è stato capace di dirigere Robinson da un letto d’ospedale. Per un bel titolo avrebbe forse dato via una medicina salvavita, ma ha accettato tutto e non si è mai lamentato. A un infermiere che gli chiedeva come andava, quando già le cose andavano a precipizio, attraverso la mascherina dell’ossigeno ha sussurrato: «Alla grande».
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