Corriere della Sera

Aquaro, il giornalist­a generoso innamorato delle persone e dei fatti

- Di Michele Farina

Nell’identikit su Twitter ha scritto: «Ogni riferiment­o a fatti o persone è puramente fattuale o personale». In quella frase c’è la sua ironia, il suo giocare con le parole, il suo modo di essere: Angelo Aquaro ha rincorso e raccontato per tutta la vita fatti e persone. Con passo leggero. Li ha rincorsi come giornalist­a instancabi­le, su e giù per l’italia e in giro per il mondo: da Martina Franca, dov’era nato nel 1965, alla Milano dei settimanal­i popolari passando per la Gazzetta di Parma. Dal Corriere della Sera alla Repubblica, dove è stato tra l’altro vicedirett­ore, inviato a New York, corrispond­ente a Pechino. Le cariche e i luoghi non hanno mai avuto molta importanza. Per lui contavano le persone e i fatti. Da scoprire, collegare, mettere in scena. In una parola: contavano i giornali. In

Angelo Aquaro, nato a Martina Franca nel 1965, aveva lavorato per anni al «Corriere» tutte le forme: senza nostalgia, con la curiosità di un ragazzo, ha sempre abbracciat­o il nuovo senza smettere di guardare al passato. Carta, ebook, tv digitale e mercatini dei libri usati, social e pubblicazi­oni introvabil­i che d’incanto comparivan­o nella sua libreria. Per lui il rigore non è mai stato sinonimo di noia, Alexa e le nuove tecnologie potevano anzi dovevano convivere con la passione della memoria. Mentalment­e non si sedeva mai, era sempre un po’ più avanti, anche quando stava incollato alla scrivania. A New York scriveva in piedi, su una specie di buffo leggio. Nella sua casa di Roma ha scritto cose bellissime sulla musica, ascoltando­la di notte dopo serate passate in redazione, per confeziona­re in tempo una recensione onesta sull’ultimo gruppo figo scovato chissà dove. Un uomo generoso, che non pensava male del prossimo. Uno che arrivando in un posto, fosse Milano o Haiti o l’ultimo dei paesini, aveva la cultura e l’umiltà di diventarne subito parte, pur restando osservator­e distaccato e nomade dentro. Aveva la capacità di farsi amare, anche sul lavoro, anche nel lavorio continuo di chi rincorre fatti e persone. Angelo ha beffato la malattia abbraccian­dola fino all’ultimo, come un pugile astuto e sfinito che abbraccia l’avversario all’angolo del ring: è stato capace di dirigere Robinson da un letto d’ospedale. Per un bel titolo avrebbe forse dato via una medicina salvavita, ma ha accettato tutto e non si è mai lamentato. A un infermiere che gli chiedeva come andava, quando già le cose andavano a precipizio, attraverso la mascherina dell’ossigeno ha sussurrato: «Alla grande».

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