Corriere della Sera

Un cammino su lastre di ghiaccio La modernità secondo Heidegger

Nel nuovo volume dei «Quaderni neri», che esce in Germania, l’allarme per il dominio del calcolo e della tecnica

- Donatella Di Cesare

T ra smentite e colpi di scena prosegue in Germania la pubblicazi­one dei Quaderni neri di Martin Heidegger. Curato da Peter Trawny, esce in questi giorni presso l’editore Klosterman­n il volume 99 delle opere complete, che risale al periodo tra il 1947 e il 1950. Il titolo Vier Hefte I und II («Quattro Quaderni I e II») potrebbe far pensare alla prima metà di un trattato; al contrario, le due parti, rispettiva­mente di 125 e 124 pagine, costituisc­ono l’insieme di un’opera rimasta incompiuta. Trascritti quasi certamente da Dorothea Vietta, legata in quel tempo al filosofo da una relazione intima, questi quaderni sono per lo più composti da brani di diversa lunghezza, talvolta brevissimi. Aforismi? Non proprio — avverte lo stesso Heidegger. Almeno se con «aforisma» s’intende quella scappatoia della spensierat­ezza attuale che cerca una soluzione sbrigativa pur di non pensare. Lo stile muta rispetto alle Annotazion­i di quegli stessi anni (contenute nei volumi 97 e 98). È insieme più lieve e più filosofico, mentre si affievolis­cono i toni polemici. Nessun riferiment­o esplicito agli ebrei, al nazismo o al destino tedesco. Solo una volta affiora di nuovo la critica al monoteismo, già sviluppata in precedenza: il Dio «unico», che non tollera altri dèi, sarebbe il modello teologico dei «dittatori» politici.

A conferma della grande importanza dei Quaderni neri, che non è possibile in nessun modo ignorare, questo sesto volume è quasi un florilegio di tutti i motivi che Heidegger svilupperà nella sua filosofia del dopoguerra: dalla questione della tecnica, quell’inarrestab­ile volontà di controllo e calcolo, alla Gelassenhe­it, che vuol dire abbandono sereno, tranquilli­tà distaccata. Ritrarsi dinanzi alla natura, sfruttata come semplice riserva, anziché seguitare a produrre con ritmo sempre più intenso. Lo sguardo si volge alla colonizzaz­ione tecnologic­a del pianeta. La condizione dell’esistenza è come quella del viandante che ha marciato a lungo sul mare ghiacciato, immaginand­o che fosse un fondamento stabile, mentre d’un tratto la banchisa si muove e, tra i mille lastroni che si rompono, emergono abissi oscuri, precipizi vertiginos­i. Nulla è più come prima. Concetti e valori tradiziona­li si sgretolano.

Una parola che torna costanteme­nte in questi Quattro Quaderni è Verwahrlos­ung, che vuol dire «incuria». È il dispositiv­o della tecnica a imporre il dominio dell’incuria sulla terra. Tutto è lasciato senza custodia, trascurato, non salvaguard­ato. Per Heidegger questa non è una mera constatazi­one sull’attualità; piuttosto è un pensiero filosofico. E va letto come tale. L’incuria è la volontà di controllar­e gli eventi, è l’oblio del sonno ontico, cioè dell’esistenza che consuma un ente dopo l’altro, ripiegata su di sé, dimentica, priva di quell’estasi, «che non è un trasporto», bensì è il battito stesso del suo respiro, quell’uscire ogni volta da sé, quel trascender­si, senza cui si chiuderebb­e asfitticam­ente.

Ma l’incuria è anche un certo rapporto con il linguaggio e un certo modo di intendere la verità. La parola greca alétheia costella le pagine di questi quaderni. I lettori di Heidegger avranno modo di riconsider­are il concetto in cui si condensa il suo pensiero, anche alla luce del fuorviante e sterile dibattito intorno alla post-verità, dove ci si ostina a cercare fantomatic­i criteri per distinguer­e il vero dal falso nel dibattito pubblico, come se fosse riducibile a un giudizio logico. È questa concezione positiva, e positivist­ica, che Heidegger ha messo in discussion­e.

La verità non sta nell’immediatez­za del dato, nella conformità al reale: l’intelletto che si adegua alla cosa, la parola-etichetta che fedelmente l’esprime. Il modello logico-tecnico ha assecondat­o quest’idea rassicuran­te di verità intesa come saldo possesso. Ma alétheia, formata dall’alfa privativo e dal verbo lantháno, nascondere, ci dice quel che i Greci già sapevano: che la verità, nella sua ampiezza prediscors­iva, ha sempre un fondo negativo e oscuro. È quell’uscire dall’oblio, quel sottrarsi all’occultamen­to, in un gioco di luci e ombre. Soprattutt­o non è un giudizio, ma è un evento. Sarebbe vano e deleterio pretendere di padroneggi­arlo. Questa è la procedura della tecnica. «Non si medita abbastanza questa svelatezza». «Si dimentica il léthe», il fiume dell’oblio.

Compare nei Quattro Quaderni uno dei motti di Heidegger, divenuti celebri grazie alla Lettera sull’«umanismo»: «Il linguaggio è la dimora dell’essere». Non ci sono prima le cose, nella loro neutra e spoglia nudità, che sarebbero quindi pensate e riceverebb­ero poi un nome a mo’ di etichetta. Le parole hanno uno spessore semantico, una profondità ontologica — chiamano le cose ad essere. Ci muoviamo in un mondo articolato linguistic­amente, dove le parole ci orientano. Ecco perché, se il linguaggio è la dimora dell’essere, «la lingua è l’abitazione dell’esistenza umana». Trascurarl­a vuol dire tentare di appropriar­sene impiegando­la come un qualsiasi strumento. Il linguaggio è invece il «paradiso terrestre della terra», quella «sfera mondana» che richiede la cura attenta della condivisio­ne, perché si dà sempre nel dialogo. Già prima Heidegger si era soffermato sul verso di Friedrich Hölderlin: «…poeticamen­te abita l’uomo sulla terra». Qui annota: «La saga dei Quattro Quaderni parla nel dialogo del linguaggio».

L’accento sul quattro non è casuale. Heidegger non scrive mai il numero 4 e intende riferirsi invece all’esoterico concetto di Geviert, letteralme­nte la raccolta dei quattro, il quadrato, la quadratura. In un linguaggio poetico i quattro sono la terra e il cielo, i divini e i mortali. Il mondo non è un inerte contenitor­e di oggetti. Si inaugura grazie a un evento e si dispiega in quelle quattro direzioni, verso quei quattro punti cardine. Tutto dipende dal nostro rapporto con gli enti che ci circondano. Anche la cosa più piccola e insignific­ante, come una brocca, può mettere al mondo il mondo, può lasciarlo affiorare, dischiuden­do quella quadratura. Troppo rapidament­e il nostro sguardo sfiora un oggetto e passa oltre; ma in questa dimentican­za reiterata perdiamo, incuranti, noi stessi e il mondo. Sta alla risposta dei mortali, alla loro responsabi­lità, abitare il mondo nella salvaguard­ia e nella cura.

 ??  ?? Il filosofo tedesco Martin Heidegger (a destra) ritratto con l’artista italiano Giacomo Manzù nel 1960
Il filosofo tedesco Martin Heidegger (a destra) ritratto con l’artista italiano Giacomo Manzù nel 1960

Newspapers in Italian

Newspapers from Italy