Lauro: voglio parlare a tutti, la trap morirà
Ese la trap avesse le ore contate? «Il mercato è saturo. Gli emergenti fanno tutti la stessa canzone, senza ricerca musicale o nel testo: una noia da voltastomaco». Il segnale arriva da Achille Lauro, pioniere del genere.
Dopo Sanremo, dove ha spiazzato con le atmosfere rock and roll di «Rolls Royce», l’artista romano presenta l’album «1969». Dieci canzoni in cui la trap è ormai un ricordo e c’è spazio ancora per il rock in chiave leggera, per un romanticismo maledetto alla Vasco, per la cassa dritta da ballare, il tutto in una miscela personale e fresca. «Ci sono due anime nel disco: esuberanza
e malinconia». Il titolo si spiega così: «Gli anni 60-70 sono stati anni di cambiamento e voglia di esprimersi: lo stesso atteggiamento nostro. La musica fatta dalle icone di allora è patrimonio dell’umanità, non come quella usa e getta di oggi».
Non ha paura di prendersi del Giuda del rap. «C’è un buco per chi ascolta musica fra i 25 e i 40 anni. Voglio parlare a tutte le generazioni che oggi hanno come riferimento solo le vecchie glorie o qualche indie come Calcutta e Coez, qui ospite. Per fortuna Sanremo mi ha tolto l’etichetta di rapper: la odiavo». Con il Festival sono arrivate le polemiche per un presunto messaggio occulto della canzone che esalterebbe lo sballo chimico: «In passato quando ho voluto essere esplicito lo sono stato. Qui mi riferivo a una frase di Marilyn Monroe e non alla droga. È stata una gogna mediatica: non si tratta il problema droga con superficialità».
In una biografia uscita prima di Sanremo ha raccontato il suo passato complicato, storie di strada, eccessi e droga. «Ho attraversato periodi difficili, ma a un certo punto le responsabilità che ho verso gli altri mi hanno fatto cambiare. Se casco io cascano altre 20 persone, tra cui la mia famiglia. Esalto le macchine di lusso non come simbolo di ricchezza ma di sogno. Una Ferrari la comprerei, un orologio da 100 mila euro no, meglio una casa».