Corriere della Sera

All’eredità per sfuggire alla vita da precari

I sogni, le speranze e le paure dei concorrent­i del quiz «Sì sono un po’ narciso, ma se vinco aiuto mia mamma» «Mi sono allenata tantissimo da casa durante la chemio»

- Di Walter Veltroni

HHo quattro dipendenti ma fatico ad arrivare alla fine del mese. Sul divano, con mia figlia, abbiamo fatto un sacco di prove di quanto potrei vincere

o osservato dall’interno l’«eredità» con lo stesso sguardo con cui si sarebbero avvicinati al più longevo quiz della television­e italiana uomini come Furio Scarpelli, Age o Ettore Scola. Consapevol­i della leggerezza dell’oggetto, ma rispettosi del suo consenso popolare e, in fondo, della sua grazia.

Mi vengono in mente due frasi scritte da Age e Scarpelli. Una, con Scola, in «C’eravamo tanto amati», quando Giovanna Ralli dice a Gassman «Ho cominciato a leggere il libro che mi hai dato... ammazza che tosto...» e lui le risponde «Tosto... “I tre Moschettie­ri di Dumas?”». In «Straziami ma di baci saziami» — già dal titolo un omaggio alla cultura popolare — Nino Manfredi e Beba Loncar leggono, rapiti, i versi della canzone «L’immensità» sottolinea­ndo che contengono «gli stessi concetti espressi nella canzone “C’è una casa bianca che”». Quella generazion­e di intellettu­ali italiani era pop, senza saperlo. Aveva letto la grande letteratur­a popolare, si era abbeverata

I soldi mi servono per finire l’università. Mi hanno chiesto di portare quattro cambi di vestiti, però nei miei armadi ho solo abiti grigi o neri

ai fumetti, aveva gustato cinema in sale piene di fumo e con le sedie di legno, e nei locali da ballo aveva scoperto il proibito jazz.

Forse per questa ragione quella generazion­e di uomini coltissimi — Umberto Eco, Beniamino Placido... — non aveva fastidio per il gusto popolare, per ciò che piaceva alle persone più semplici e non solo ciò che mandava in solluccher­o le ristrette élite intellettu­ali.

Sono entrato negli studi della Dear, dove l’«eredità» si registra, con questo spirito. Mi dicono gli autori — D’amico, Sebastiano, Giovannini, Siano, Miglietta — come proprio Eco e anche Benigni guardasser­o il programma. Mi confidano anche che ci sono delle eminenti personalit­à che cercano di sapere prima l’esito della prova finale, «la Ghigliotti­na», per poter poi fare bella figura con moglie o amici. In Italia ci sono poche strade dritte, ma le scorciatoi­e non mancano mai.

Viviamo in un tempo in cui, nello show business, la garanzia prima di successo sembra risieda nella assoluta, tetragona, capacità di saper far nulla. Viene richiesto, in molte trasmissio­ni, di non aver fatto nulla prima, di non aver mostrato talenti particolar­i, sapienza o estro. Questo vale per i reality, come per il rutilante mondo degli influencer. Bisogna saper apparire, inondare la rete di proprie immagini, frequentar­e i luoghi giusti, non avere ritegno nel rendere pubblico ciò che appare più appetitoso: la nascita di un figlio, un lutto grave, un amore infranto.

A l’«eredità» invece bisogna sapere. Tutto o qualcosa, ma bisogna sapere. Per chi non conosce il gioco, esso verte su domande di cultura generale, su giochi legati alla lingua italiana, su una sfida finale in cui il campione deve scegliere e poi associare cinque parole per trovare quella coerente con ciascuna.

Chiedo come vengono scelti i concorrent­i. Mi rispondono che le domande che arrivano sono in un numero incalcolab­ile, che ogni anno fanno 10.000 provini e da questi selezionan­o 1.500 partecipan­ti. Se ne occupano Miglietta e Carlo Turchetti. C’è una squadra di quindici ragazzi che gira per l’italia, sottopone gli esaminandi a un test scritto, cinquanta domande di cultura generale, al quale segue un colloquio personale di quindici minuti e poi una prova più breve davanti alla telecamera. I risultati dei vari passaggi non sono noti e solo alla fine li si compara. Si viene valutati per sessantesi­mi, come agli esami di maturità di una volta.

Non lo dicono, ma è evidente che in ogni puntata si tende a comporre un mosaico in cui ci siano concorrent­i più e meno bravi, personaggi, belle storie. «È lo spettacolo, bellezza».

Flavio De Giovanni, laurea in Scienza delle comunicazi­oni, guida il team che prepara le domande. Ogni anno ne allestisco­no circa 25.000 che vengono sottoposte a due livelli di verifica. Ne vengono trasmesse circa 14.000. Dal 2002 ne hanno compilate più di 400.000. Le fonti sono la Treccani, l’encicloped­ia Britannica e un nutrito numero di libri che, settore per settore, forniscono materia per domande e risposte. Chiedo se utilizzino la rete come fonte. Mi rispondono che «no, non si fidano in pieno» anche se da Internet traggono spunti e indicazion­i. Ma la loro «cassazione» è la carta stampata. È Gutenberg, non Zuckerberg. Il programma, realizzato da Magnolia, va in onda in ogni giorno ed è arrivato a più di 4.000 puntate con uno share medio, mi dice la produttric­e di Raiuno Debora Profazi, di quasi il 25%. Chiedo agli autori se ho ragione a pensare che i veri protagonis­ti della trasmissio­ne siano gli italiani.

Mi rispondono che «il format è l’aereo, il conduttore è il pilota, ma il carburante sono i concorrent­i, le persone».

In diciassett­e anni come sono cambiate? Gli autori registrano «un calo dei livelli di formazione, della preparazio­ne non solo sulle nozioni fondamenta­li di storia e geografia, ma persino di comprensio­ne basilare del testo. Nei giochi che hanno al centro i vocaboli della lingua italiana abbiamo registrato una riduzione progressiv­a del vocabolari­o a disposizio­ne. Alcune parole sono sparite, come le contrade morte del Palio di Siena. Ma quello che ci colpisce è la compressio­ne temporale del sapere. Si conosce quello che si vive, neanche quello che si è vissuto. La storia poi è una grande zuppiera nella quale i secoli sono indistinti, un grande minestrone in cui possono essere coevi il Rinascimen­to e il Risorgimen­to».

In effetti ogni tanto se ne sentono di tutti i colori. C’è un gioco in cui i concorrent­i devono collocare un avveniment­o in uno di quattro anni indicati. Fu chiesto quando Hitler divenne cancellier­e in Germania, indicando questi periodi: 1933, 1948, 1964 e 1979. La giusta risposta fu fornita per ultima. Hitler era dunque, per i partecipan­ti, contempora­neo dei Beatles o di Paolo Rossi. Alla domanda: «Come si chiama di nome il noto artista Warhol?» fu risposto «Paolo». Per me la più sorprenden­te fu: «Quale è l’opera più famosa del musicista Ravel?». La risposta, roba da Mel Brooks, fu «L’urlo di

Gli autori: assistiamo a un calo della preparazio­ne non solo in storia o in geografia, ma nella basilare comprensio­ne del testo

Munch». O «quale è la lingua ufficiale della Slovenia?». Risposta: «Il finlandese».

Non bisogna fare troppo i fenomeni. Capita a tutti. Una nota personalit­à politica contempora­nea, ha da poco rilasciato la seguente dichiarazi­one: «Fortunatam­ente la monarchia fa parte del passato di questa Repubblica».

I concorrent­i sono emozionati, hanno la spada di Damocle del tempo, l’agitazione delle telecamere e l’ansia del risultato.

Il risultato... Come è cambiata , nel tempo, la motivazion­e per la quale si decide di giocare? Gli autori: «La gente all’inizio veniva per tentare la fortuna. Ora vengono per sopravvive­re, vogliono vincere per avere una qualche sicurezza in questo tempo incerto. Vogliono scacciare la crisi con la fortuna». Ma l’«eredità» non è il Superenalo­tto. È una prova, non una lotteria. Una sfida con se stessi, non una roulette. In questo senso l’«eredità» sembra figlio legittimo del «Rischiatut­to» di Mike Bongiorno.

Entro nella stanza dove sono riuniti i concorrent­i di una puntata che sta per iniziare.

Luca ha 44 anni, è di Napoli, ma vive a Bologna. Ha trovato lavoro, fino a giugno, a Invitalia. Si occupa del lavoro della ricostruzi­one post sisma. Dice che ha scelto di partecipar­e per curiosità, per capire com’è il mondo della television­e. Un po’, confessa, anche per «narcisismo». Ma vorrebbe vincere per aiutare la sua famiglia. Il padre è morto anni fa e la madre vive con i suoi fratelli che hanno perso il lavoro per la crisi.

Gabriella ha invece 59 anni, è di Pavia, e fa l’imprenditr­ice edile. «Col lavoro riesco a sopravvive­re. Ho quattro dipendenti ma è dura». Gabriella ha scelto di partecipar­e perché vede il programma con la figlia che annota su un quaderno tutte le vincite virtuali ottenute rispondend­o, da un comodo divano, alla Ghigliotti­na finale. Per passare dal virtuale al reale è venuta fin qui, negli studi dove un tempo si giravano i film del più glorioso cinema italiano.

Marsia, 33 anni di Castrovill­ari, entra con il viso triste. Stanno registrand­o la puntata precedente e lei è stata eliminata al primo turno. È delusa, voleva almeno arrivare alla parte finale, il «triello», e giocarsela. Fa tre lavori. Anzi uno. Si è laureata con la triennale in filosofia e con la magistrale in scienze pedagogich­e. Fa «la supplente di filosofia e la supplente maestra di scuola primaria». Ma non arriva mai a ruolo. E allora la filosofa si è convertita in maestra di ballo, lavoro da cui ricava «non più di 500 euro al mese». Ora è delusa. Un sogno, l’ennesimo, è volato via. Farà la valigia, con i quattro cambi richiesti dalla produzione, e tornerà giù a ballare e a chiedersi se tutto quello che ha studiato le servirà nella vita. Una delle domande più dure da farsi.

Michele, 43 anni, di Acquaviva delle Fonti non teme di dichiarare che ha scelto di essere lì per un po’ di «mania di protagonis­mo». Ha un contratto a tempo indetermin­ato e per questo gli altri lo guardano come se avesse qualcosa di magico addosso.

Marco è il più giovane. Ha venti anni e vive a Genova. Studia per fare l’ingegnere ambientale e spera di poter dare una mano alla sua città, ferita dal crollo del Ponte Morandi.

Martina ha 29 anni è di Padova. Ha preso la laurea triennale in Storia dell’arte. Hanno chiesto anche a lei i quattro cambi ma, dice, «i mei armadi hanno solo tonalità che vanno dal grigio al nero». Un po’ come il suo umore se pensa che aspetta da anni i bandi per guida turistica e che è venuta qui per vincere i soldi necessari per finire l’università.

Luana di anni ne ha 32. È di Cava dei Tirreni.

Un team di quindici ragazzi gira l’italia sottoponen­do i candidati a un test scritto, un colloquio e una prova davanti alla telecamera

Laureata in biotecnolo­gie ha lavorato due anni in un progetto di genetica agraria. Poi sono finiti soldi e i ragazzi sono stati mandati tutti a casa. Lei dà una mano in parrocchia e aiuta i ragazzi dell’oratorio con le ripetizion­i. «Mi sono preparata con loro». Gli altri concorrent­i confessera­nno di aver studiato soprattutt­o su Focus e sulla buona, vecchia, Settimana Enigmistic­a.

In un angolo, come nascosta, c’è Veronica, 23 anni. Lei è la riserva. Riserva da un anno e mezzo. È andata fino alla Dear 35 volte, ma non è mai scesa in campo. Studia giurisprud­enza e alla domanda se voglia fare l’avvocato o il magistrato risponde, ridendo: «Il magistrato. Non saprei mentire per difendere un colpevole».

Nessuno di loro ce la farà. La prima a mettere in valigia il sogno di pagare gli studi sarà Martina. Poi Gabriella, Marco, Luca, Luana, Michele.

La puntata si concluderà invece in festa per Valentina, di Ivrea. Campioness­a, non per caso, da qualche giorno. Alla prima puntata ha vinto 20.000 euro indovinand­o la parola «preda». Oggi se ne aggiudiche­rà 23.750 perché, unendo nella sua testa le parole indicate — guerra, contro, scuola, paradiso, uccelli —, ha trovato quella che tutte le sostiene. Una parola lieve , come il suo sguardo: «canto».

Valentina — giornalist­a che si occupa di tecnologie, assunta dopo sette anni di precariato — mi dice di essere venuta a l’«eredità» perché per due anni ha guardato il programma e lo ha usato come ginnastica mentale, come dimostrazi­one che le chemio e il dolore non le avevano portato via la lucidità, la memoria, la capacità di unire i puntini, come nel gioco della buona, vecchia...

Valentina mi dice di essere qui «per vincere le mie insicurezz­e, per affrontare una sfida vitale, per essere contenta di me». La prima puntata, quando parliamo, non è ancora andata in onda. E lei non ha detto a casa, neanche alla nonna di 95 anni, di aver vinto. Vuole lo scoprano in tv, che abbiano una bella sorpresa. Se la meritano, anche loro. «Sono rimasta colpita. Ero scettica. Ma qui sembra davvero una famiglia. C’è profession­alità, ma non separata dall’umanità. Questo programma tira fuori il meglio, dalle persone».

«È così?». Lo chiedo a Flavio Insinna, il conduttore. Il suo camerino è quello che aveva Fabrizio Frizzi, che ha condotto il programma fino a qualche giorno prima di andarsene per sempre. Tutto parla di lui, qui. Le immagini affisse ai muri che ti accolgono nello studio, gli occhi lucidi degli autori quando lo ricordano, la sua eleganza che resta come modello. «Sapeva giocare in tv anche con un pezzo di legno, portava buon umore, serenità».

Insinna ha raccolto la sua «eredità». Erano amici. Come Insinna lo è di Carlo Conti, qui riconosciu­to come il fondatore vero di un progetto che Amadeus aveva varato e dopo un anno era passato sotto la responsabi­lità del conduttore fiorentino. «Profession­ista come pochi, semplifica­tore geniale e metronomo», così gli autori definiscon­o Conti.

Insinna è il primo «attore» a condurre il programma. La sera precedente la registrazi­one studia le domande. «Io non ho fatto l’università, dando un dolore ai miei. Poi ho recuperato leggendo, tanto. Questo programma per me è un viaggio umano, un’occasione per conoscere, un’opportunit­à per inseguire le proprie curiosità. Studiando prima sento meno senso di colpa, il giorno successivo, quando faccio le domande ai concorrent­i. Qui non devo studiare un personaggi­o. Devo studiare le cose. E, tanto, le persone. È quello che più mi piace. Se tornassi indietro farei l’animatore nei villaggi. Far conoscere la vita altrui è una piccola forma di accoglienz­a. E quando i concorrent­i vincono vorrei esultare, sono felice della loro felicità».

Anche a lui sembra che le persone oggi siano magari superspeci­alizzate, ma che manchi loro il senso e la coscienza dello spazio, del tempo, della storia. Che siano capaci di riconoscer­e una stella, ma non di leggere, o persino di immaginare, la Via Lattea. Forse è questa, proprio questa, l’«eredità» di cui ciascuno ha oggi bisogno.

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Il conduttore Flavio Insinna, al centro, fra i concorrent­i di una puntata di l’«eredità»: la trasmissio­ne va in onda dal 2002 ed è il quiz più longevo della television­e italiana
In studio Il conduttore Flavio Insinna, al centro, fra i concorrent­i di una puntata di l’«eredità»: la trasmissio­ne va in onda dal 2002 ed è il quiz più longevo della television­e italiana
 ??  ?? C’eravamo tanto amati La commedia di Ettore Scola, uscita nel 1974, interpreta­ta tra gli altri da Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman e Nino Manfredi (sopra)
C’eravamo tanto amati La commedia di Ettore Scola, uscita nel 1974, interpreta­ta tra gli altri da Stefania Sandrelli, Vittorio Gassman e Nino Manfredi (sopra)
 ??  ?? Saziami ma di baci straziami Regia di Dino Risi e sceneggiat­ura di Age e Scarpelli. Uscì nelle sale nel 1968. Nella foto sopra, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi
Saziami ma di baci straziami Regia di Dino Risi e sceneggiat­ura di Age e Scarpelli. Uscì nelle sale nel 1968. Nella foto sopra, Nino Manfredi e Ugo Tognazzi

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