Corriere della Sera

IL MONDO CHE SEMBRA UNO STADIO

- Di Beppe Severgnini

Le immagini dell’arresto di Julian Assange sono penose. Un uomo di 47 anni che ne dimostra venti di più, piegato su stesso, protesta e si lamenta mentre viene trascinato via da uno squadrone di poliziotti, sulla porta dell’ambasciata dell’ecuador a Londra, dov’era rifugiato dal 2012. Ma la pena non è una categoria politica: sarebbe opportuno cercare di capire cosa ha combinato questo strano personaggi­o, fondatore di Wikileaks. Merita quanto gli sta accadendo? È un patriota o una spia, un paladino della trasparenz­a o un opportunis­ta? Ha messo in pericolo la sicurezza degli Usa o ha aiutato l’elezione di Donald Trump? Ha lavorato — questo è certo — per la Russia di Putin, non proprio un Paese liberale. Ma ha commesso i reati sessuali di cui è accusato in Svezia, non certo un Paese autoritari­o?

Non proveremo a rispondere a queste domande, oggi: servirebbe un libro, non un editoriale. Diciamo soltanto che il personaggi­o è spregiudic­ato e contraddit­torio; e trasformar­lo in un eroe appare azzardato. È vero: gli Stati Uniti hanno abusato della propria supremazia tecnologic­a per infilarsi nelle vite di troppe persone, negli Usa e all’estero (solo alle prime hanno chiesto scusa). Ma è lecito istigare una fonte a commettere un reato, come ha fatto Assange con Chelsea Manning, che sottrasse migliaia di documenti segreti? È giusto che tutto sia sempre noto a tutti?

Sembra un’idea pericolosa­mente ingenua, che renderebbe impossibil­e l’attività della diplomazia, della polizia e delle forze armate di ogni Paese democratic­o.

Questioni complesse, da qualsiasi parte le prendiamo. Julian Assange – profeta o spia, eroe o recluso, pazzo o visionario – è un personaggi­o che sta al centro di tante questioni contempora­nee: la sicurezza dei dati, la fedeltà alla causa e la lealtà alla patria, le guerre silenziose tra le grandi potenze. Non si può tifare per lui come fosse una squadra di calcio. E invece sta accadendo proprio questo.

Le discussion­i — non solo in Italia — sono disordinat­e, i punti di vista faziosi, i ragionamen­ti spesso interessat­i e inconclude­nti. Il mondo è diventato un grande stadio dove non si ragiona con calma: si grida, si tifa e si insulta. La battaglia intorno ad Assange è esplosa sui social, in molte lingue e a tutte le latitudini. Grazie alla rete e agli strumenti che portiamo in tasca, chiunque è in grado di esprimere un’opinione. Non solo su Assange e Wikileaks, ovviamente: su ogni questione internazio­nale, per quanto complessa. Studiare è passato di moda; dichiarare, mai.

Quanti ricordano che la saga di Assange è iniziata nel 2010, quando molti vedevano in lui una sorta di Robin Hood dell’informazio­ne? Il biondo — allora — australian­o prima ha pubblicato il video dell’attacco di un elicottero USA a Baghdad, in cui morirono due corrispond­enti iracheni della Reuters; poi ha diffuso migliaia di documenti riservati sulle guerre in Afghanista­n e in Iraq. Nel 2016 ha reso pubblici altri documenti che, secondo un’inchiesta americana, sarebbero stati trafugati dai servizi segreti russi. All’epoca Donald Trump proclamava il suo entusiasmo per Wikileaks; l’altro ieri ha detto di non saperne niente. Il New York Times, dopo aver collaborat­o in passato con l’organizzaz­ione, si è chiesto: «Quando Assange si esprime, è Putin che parla?».

Secondo voi, quanti degli attuali litiganti planetari ricordano tutto ciò?

In questo clima di tifoserie contrappos­te si è inserito anche il governo italiano. Con un particolar­e: tifa per entrambe le squadre in campo. I Cinque Stelle sono per Assange, e ne chiedono un’improbabil­e estradizio­ne in Italia; Alessandro Di Battista, da tempo silente, è arrivato a definirlo «un patriota dell’umanità». La Lega di Matteo Salvini, invece, ne diffida, e lo lascia intendere. Non è la prima volta, certo: il governo si è spaccato anche sulla Francia, il Venezuela e la Libia. Ma nel caso di Assange e Wikileaks c’è qualcosa di più, ed è quello di cui abbiamo parlato finora. C’è una gran confusione che non va via: neppure alzando la voce. Se il mondo è diventato uno stadio, una grande democrazia, qual è l’italia, dovrebbe intervenir­e nella discussion­e con poche parole chiare. Non aggiungend­o tifo a tifo.

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