Noi cantori del verde perduto Tra i fiori e le piante delle città che cambiano
Solo Napoleone pare non contagiato dall’epidemia di verde che ha colpito la Milano del Salone del mobile e della Design week. Piantato nel mezzo del cortile d’onore di Brera, austera architettura gesuitica, se ne sta lì nudo nelle vesti, si fa per dire, di Marte pacificatore (un bell’ossimoro, a pensarci) assorto nella lettura del gran libro che l’installazione di Unifor gli tiene squadernato davanti. Niente foglioline, niente alberelli, niente fiorellini. Cose buone, sembra dire, insieme con rameggi, spalliere, arbusti e alberi veri e propri per i séparé di caffè e bar all’aperto, tormentati per altro dalla pioggia. O per le vetrine degli infiniti negozi e delle infinite esposizioni di materiali, rivestimenti, mobili, accessori, attrezzi, impianti, luci che hanno deciso di riscattare la propria fredda essenza tecnologica con la gentilezza
viva di un tocco di verde. Ma qui, sembra dire l’imperatore divinizzato da Antonio Canova, siamo nel cuore della cultura, altro che natura, circondati dai libri — veri questi, non installati — della Braidense, tra i porticati sotto cui passeggiava l’abate Parini. Qui siamo ancora nella lunga tradizione della città ideale, come nelle tavole del primo Rinascimento, tutte marmi e prospettiva, un filo d’erba neanche a pagarlo. La città come artefatto, orgogliosamente contrapposta all’ambiente circostante, bellezza della razionalità. Ma fuori dallo sguardo corrucciato di Napoleone, la città di oggi non è più così. Pentita, così sembra, della sua arroganza passata, vuole venire a patti con quel mondo verde contro cui si era eretta, vuole includerlo, inglobarlo. Non solo come ornamento e come decoro, ma come sua effettiva essenza. È un fenomeno non recentissimo, oltre che avvisaglie, esperimenti, tentativi si sono già visti grandi, e profondi, risultati. L’architettura in legno di Michele De Lucchi, il bosco verticale di Stefano Boeri. La città si viene caricando del compito — la sopravvivenza — che la campagna non riesce più a sostenere. Il paesaggio agricolo, propriamente parlando, non esiste più. È stato sostituito dall’industria agricola, che è tutt’altra cosa. Al di sopra dei cinquecento metri d’altezza non solo l’italia ma l’intera Europa mediterranea si sta trasformando in un deserto umano, tornano le selve. Il verde perduto si rifugia nella città. E gli urbanizzati del ventunesimo secolo lo cercano, lo amano, lo coccolano, lo vogliono a tutti i costi, spendono e spandono per averlo. Non solo per raffinatezza estenuata, c’è qualcosa di antico, forse di atavico dentro di noi. Possiamo crederci figli in toto del nostro tempo, ma tre o quattro generazioni fa, un battito di ciglia nella storia, vivevamo tutti sulla terra e della terra. Sotto i tatuaggi o sotto le camicie bianche siamo tutti, o quasi, contadini. L’odore dell’erba appena tagliata, il brusio del vento negli alberi è qualcosa scritto dentro di noi, non lo troviamo nelle serie televisive. Lo cerchiamo, con un malcelato timore di averlo perso, definitivamente.