Corriere della Sera

Mitragliat­rici, razzi e colpi di mortaio A Tripoli si combatte strada per strada

Il fronte si trova a sud della capitale libica ma è indefinito. «Vediamo i soldati di Haftar»

- Dal nostro inviato a Tripoli Lorenzo Cremonesi

Ipick-up sormontati da mitragliat­rici pesanti dei gruppi armati della zona di Tripoli e di quelli giunti in fretta e furia negli ultimi giorni da Misurata restano nascosti dietro i muri delle palazzine di due o tre piani delle periferie. Sono lunghe attese con gli uomini che guardano nervosi in aria per cercare di individuar­e i droni nemici. Si vedono sentinelle sui tetti assieme ai cecchini appostati. Vicino a noi un gruppetto resta acquattato con due Rpg carichi. Ogni tanto un colpo secco, un proiettile sibila nel cielo limpido della primavera tripolina. Poi, obbedendo all’ordine gracchiato dalla radiolina, uno dei pick-up si piazza nel mezzo della strada in una nuvola di polvere. E subito il giovane in mimetica in piedi sul cassone preme il grilletto. Le raffiche partono assordanti, ripetute. Traccianti luminosi vanno a perdersi a centinaia di metri di distanza. Hanno colpito il bersaglio? Non si capisce, impossibil­e dire.

Un giovane filma la scena col cellulare. Appena noi proviamo ad estrarre il nostro ci dicono di non riprendere. «Domani forse. Oggi no. Vietato», urlano. Dal fondo della via si ode fracasso, scoppi; gli spari in arrivo dall’altra parte si confondono con quelli in partenza. Ci ordinano di restare dentro un fossato che funziona da trincea artigianal­e. L’uomo alla mitragliat­rice sul pickup comunque non risparmia colpi per forse un minuto. Quindi, rapido come si è posizionat­o, il mezzo torna a ripararsi sulla posizione di partenza. Alle nostre spalle, ma ad almeno 200 metri, va a esplodere un colpo di mortaio leggero. Trascorron­o forse tre minuti, dal fragore si è passati a un silenzio irreale, quasi magico dopo il rumore e l’eccitazion­e di prima. È allora che un secondo pick-up esce allo scoperto per disseminar­e la sua sventaglia­ta di piombo. Ma in quel momento la sagoma di un caccia nemico si staglia nel cielo. Tutti tornano a nasconders­i, ci si fa piccoli, nella speranza di non essere visti.

È più o meno così che dal 4 aprile si consuma la battaglia per Tripoli. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, senza vere linee definite. Guerriglia urbana fatta di colpi di mano, imboscate. Siamo tornati ieri nella zona del quartiere di Ain Zara, una dozzina di chilometri a sud del centro, proprio dove le colonne principali dell’esercito di Khalifa Haftar hanno raggiunto la leggera depression­e di Wadi Rabia per puntare diritte ai gangli vitali del governo del premier Fayez Sarraj. Poco distante da qui due giorni fa i responsabi­li dell’ufficio stampa di Tripoli ci avevano condotto a visitare un carcere dove affermano di aver chiuso 75 soldati nemici. Ma la linea del fuoco si sposta di continuo. I posti di blocco delle milizie che difendono la capitale segnano l’avanti e indietro della zona dei combattime­nti. Allora sembrava che le truppe di Haftar potessero prendere il carcere da un momento all’altro. Adesso sono arretrate forse di mezzo chilometro. Ma significa poco. Sulla nostra destra le sue teste di ponte sono invece avanzate di un paio di strade e minacciano

di accerchiar­e le roccaforti della difesa di Ain Zara.

È circa mezzogiorn­o quando raggiungia­mo i pressi delle prime linee. Nell’arco di un paio di chilometri la zona è diventata completame­nte deserta. C’è movimento soltanto presso tre moschee, dove gruppi di uomini si stanno dirigendo per le preghiere del venerdì. La tregua del giorno santo musulmano, la prima dopo una settimana, garantisce a qualche famiglia intrappola­ta tra i due fuochi di uscire per la strada, saltare in macchina e fuggire. Secondo la Croce Rossa sono oltre 9.000 ormai gli sfollati. Ma tanti sono ancora bloccati. «Non posso uscire. Dal 4 aprile siamo rifugiati in cantina, sette persone in tutto, con mia moglie, i miei genitori anziani e le mie quattro figlie piccole», spiega il 37enne Walid Abdallah per telefono. «Fuori dalla finestra vedo i soldati di Haftar. Cantano le canzoni e gli inni del tempo di Gheddafi. Ho visto transitare anche sei carri armati, trasportan­o casse di munizioni. Mi sa che il peggio deve ancora venire», continua. La sua casa è forse un chilometro in linea d’aria da qui. Ma è impossibil­e da raggiunger­e. Attorno si vedono edifici danneggiat­i. I cecchini di entrambi i fronti sparano su tutto ciò che si muove. Lui del resto racconta ciò che a Tripoli si è capito molto bene. Prima di lanciare l’attacco Haftar ha ottenuto aiuti cospicui dai suoi tre alleati maggiori nella regione: Arabia Saudita, Egitto ed Emirati. Il Wall Street Journal rivela che durante la sua ultima visita a Riad, il 27 marzo scorso, l’uomo forte della Cirenaica incontrand­o re Salman e il suo delfino Mohammed bin Salman avrebbe ricevuto in regalo decine di milioni di dollari, armi e munizioni. «Questa non è più una guerra tra libici, ma il cuore del braccio di ferro tra potenze regionali. Al suo fulcro la sfida tra sauditi e Qatar per l’egemonia sul mondo sunnita», osservano i commentato­ri più attenti. Libia come Siria e Yemen. Pochi si fanno illusioni. La guerra è destinata a farsi più dura. Tanto che l’inviato dell’onu Ghassan Salamé starebbe per rassegnare le dimissioni e Haftar si sente tanto forte da promulgare il mandato di cattura per Sarraj e i suoi collaborat­ori.

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(Afp/mahmud Turkia) Proteste Migliaia di persone sono scese in piazza ieri nel centro di Tripoli per manifestar­e contro il generale Khalifa Haftar

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