Mitragliatrici, razzi e colpi di mortaio A Tripoli si combatte strada per strada
Il fronte si trova a sud della capitale libica ma è indefinito. «Vediamo i soldati di Haftar»
Ipick-up sormontati da mitragliatrici pesanti dei gruppi armati della zona di Tripoli e di quelli giunti in fretta e furia negli ultimi giorni da Misurata restano nascosti dietro i muri delle palazzine di due o tre piani delle periferie. Sono lunghe attese con gli uomini che guardano nervosi in aria per cercare di individuare i droni nemici. Si vedono sentinelle sui tetti assieme ai cecchini appostati. Vicino a noi un gruppetto resta acquattato con due Rpg carichi. Ogni tanto un colpo secco, un proiettile sibila nel cielo limpido della primavera tripolina. Poi, obbedendo all’ordine gracchiato dalla radiolina, uno dei pick-up si piazza nel mezzo della strada in una nuvola di polvere. E subito il giovane in mimetica in piedi sul cassone preme il grilletto. Le raffiche partono assordanti, ripetute. Traccianti luminosi vanno a perdersi a centinaia di metri di distanza. Hanno colpito il bersaglio? Non si capisce, impossibile dire.
Un giovane filma la scena col cellulare. Appena noi proviamo ad estrarre il nostro ci dicono di non riprendere. «Domani forse. Oggi no. Vietato», urlano. Dal fondo della via si ode fracasso, scoppi; gli spari in arrivo dall’altra parte si confondono con quelli in partenza. Ci ordinano di restare dentro un fossato che funziona da trincea artigianale. L’uomo alla mitragliatrice sul pickup comunque non risparmia colpi per forse un minuto. Quindi, rapido come si è posizionato, il mezzo torna a ripararsi sulla posizione di partenza. Alle nostre spalle, ma ad almeno 200 metri, va a esplodere un colpo di mortaio leggero. Trascorrono forse tre minuti, dal fragore si è passati a un silenzio irreale, quasi magico dopo il rumore e l’eccitazione di prima. È allora che un secondo pick-up esce allo scoperto per disseminare la sua sventagliata di piombo. Ma in quel momento la sagoma di un caccia nemico si staglia nel cielo. Tutti tornano a nascondersi, ci si fa piccoli, nella speranza di non essere visti.
È più o meno così che dal 4 aprile si consuma la battaglia per Tripoli. Giorno dopo giorno, ora dopo ora, senza vere linee definite. Guerriglia urbana fatta di colpi di mano, imboscate. Siamo tornati ieri nella zona del quartiere di Ain Zara, una dozzina di chilometri a sud del centro, proprio dove le colonne principali dell’esercito di Khalifa Haftar hanno raggiunto la leggera depressione di Wadi Rabia per puntare diritte ai gangli vitali del governo del premier Fayez Sarraj. Poco distante da qui due giorni fa i responsabili dell’ufficio stampa di Tripoli ci avevano condotto a visitare un carcere dove affermano di aver chiuso 75 soldati nemici. Ma la linea del fuoco si sposta di continuo. I posti di blocco delle milizie che difendono la capitale segnano l’avanti e indietro della zona dei combattimenti. Allora sembrava che le truppe di Haftar potessero prendere il carcere da un momento all’altro. Adesso sono arretrate forse di mezzo chilometro. Ma significa poco. Sulla nostra destra le sue teste di ponte sono invece avanzate di un paio di strade e minacciano
di accerchiare le roccaforti della difesa di Ain Zara.
È circa mezzogiorno quando raggiungiamo i pressi delle prime linee. Nell’arco di un paio di chilometri la zona è diventata completamente deserta. C’è movimento soltanto presso tre moschee, dove gruppi di uomini si stanno dirigendo per le preghiere del venerdì. La tregua del giorno santo musulmano, la prima dopo una settimana, garantisce a qualche famiglia intrappolata tra i due fuochi di uscire per la strada, saltare in macchina e fuggire. Secondo la Croce Rossa sono oltre 9.000 ormai gli sfollati. Ma tanti sono ancora bloccati. «Non posso uscire. Dal 4 aprile siamo rifugiati in cantina, sette persone in tutto, con mia moglie, i miei genitori anziani e le mie quattro figlie piccole», spiega il 37enne Walid Abdallah per telefono. «Fuori dalla finestra vedo i soldati di Haftar. Cantano le canzoni e gli inni del tempo di Gheddafi. Ho visto transitare anche sei carri armati, trasportano casse di munizioni. Mi sa che il peggio deve ancora venire», continua. La sua casa è forse un chilometro in linea d’aria da qui. Ma è impossibile da raggiungere. Attorno si vedono edifici danneggiati. I cecchini di entrambi i fronti sparano su tutto ciò che si muove. Lui del resto racconta ciò che a Tripoli si è capito molto bene. Prima di lanciare l’attacco Haftar ha ottenuto aiuti cospicui dai suoi tre alleati maggiori nella regione: Arabia Saudita, Egitto ed Emirati. Il Wall Street Journal rivela che durante la sua ultima visita a Riad, il 27 marzo scorso, l’uomo forte della Cirenaica incontrando re Salman e il suo delfino Mohammed bin Salman avrebbe ricevuto in regalo decine di milioni di dollari, armi e munizioni. «Questa non è più una guerra tra libici, ma il cuore del braccio di ferro tra potenze regionali. Al suo fulcro la sfida tra sauditi e Qatar per l’egemonia sul mondo sunnita», osservano i commentatori più attenti. Libia come Siria e Yemen. Pochi si fanno illusioni. La guerra è destinata a farsi più dura. Tanto che l’inviato dell’onu Ghassan Salamé starebbe per rassegnare le dimissioni e Haftar si sente tanto forte da promulgare il mandato di cattura per Sarraj e i suoi collaboratori.