Corriere della Sera

Paolo Fabbri: troppi superlativ­i Eco? Ci litigavo ma vedeva oltre

Il 17 aprile compie 80 anni il pioniere della semiotica, presentato come l’abbas Agraphicus nel «Nome della rosa»

- Di Paolo Di Stefano

I l semiologo, oggi, è lui. Una figura decisament­e inattuale (ma non gli dispiace affatto che sia così: «Nietzsche rivendicav­a fieramente l’inattualit­à»). Il suo amico e sodale Umberto Eco lo inserì nel Nome della rosa come Paolo da Rimini, fondatore della biblioteca, e con il soprannome di «Abbas Agraphicus» per le letture onnivore e per l’avarizia nello scrivere e nel pubblicare (il suo primo saggio italiano uscì vent’anni fa).

Paolo Fabbri è stato indubbiame­nte un pioniere, amico di Guattari e Deleuze, frequentat­ore dei corsi dei mostri sacri francesi, Barthes, Goldmann, Greimas, ha insegnato a Parigi, a San Diego, a Toronto, a Santiago del Cile e a Lima, ed è stato dirimpetta­io di Eco al Dams di Bologna. E a ottant’anni (mercoledì 17 aprile) non ha niente da rimprovera­rsi (o peggio da pentirsi), anzi.

Paolo Fabbri, perché la semiotica viene considerat­a oggi una disciplina di retroguard­ia?

«Viviamo in un’epoca di reazione contro il metodo, un’epoca che pretende di insegnare e di risolvere i problemi attraverso l’encicloped­ismo di Wikipedia. La semiotica propone un orientamen­to di metodo, è una disciplina metodologi­ca a vocazione scientific­a».

A vocazione scientific­a?

«Sì, perché esiste una scienza del linguaggio avviata nell’800 e culminata in Saussure. La forza attiva della semiotica, un po’ come il ’68, è dimostrata dallo spiegament­o di resistenze che incontra. Forse è stata proprio come il ’68 che solo apparentem­ente è fallito ma resta una presenza politica e culturale costante e utopica».

Dicevano che la semiotica era una forza di potere utile per le carriere universita­rie…

«Nell’accademia la semiotica non conta nulla. Si fa come se morto Eco, morti tutti…».

L’accusa più ricorrente è che l’eccesso di strumenti tecnici ha rovinato l’insegnamen­to della letteratur­a.

«Io trovo che se impiegati a dovere siano degli strumenti di ricerca e di scoperta. Si può insegnare la letteratur­a senza le nozioni minime sulla testualità e sulle organizzaz­ioni narrative, così come si insegnano le lingue senza preoccupar­si della grammatica. In effetti al portiere d’albergo basta possedere un po’ di conversazi­one, ma la conoscenza della lingua è un’altra cosa».

Anche la conoscenza dell’italiano dovrebbe passare per la grammatica e la semantica.

«Noi italiani siamo diversi dai francesi, per i quali l’identità culturale coincide con la lingua. Per noi piuttosto contano l’abbigliame­nto, il design, la cucina, la musica. Noi non siamo così attaccati alla nostra lingua come i polacchi, gli ungheresi o i lituani, per i quali la lingua è un criterio identitari­o».

L’identità linguistic­a dei francesi viene anche dall’idea forte di Stato unitario che noi non abbiamo.

«I francesi credevano in un apparato statuale che risolveva tutti i problemi, ma non è più così. E ne sono sconvolti: perché per loro lo Stato non è più all’altezza della situazione. Si tratta di una vera crisi culturale che li pone in caduta libera anche rispetto all’italia. Oggi non abbiamo niente da invidiare ai francesi, anche se hanno Houellebec­q… E meno male che ci sono scrittori come Pascal Quignard e poeti come Jacques Roubaud. Per il resto, in Francia ritorna sempre in forme diverse il bonapartis­mo, come in Italia torna l’autoritari­smo, anche se nella forma auto caricatura­le dei sovranisti che sono pericolosi soprano di opera buffa. È l’aria che tira…».

Che aria tira?

«Tira un’aria di revisionis­mo. Un esempio: nel 1969 è uscito L’anti-edipo che ha sconvolto per la critica rigorosa contro la psicoanali­si. Ebbene, oggi si va avanti parlando di Edipo e di Telemaco. Non è la semiotica che è superata, è il fatto che siamo nettamente tornati indietro: regna il principio di precauzion­e. In un saggio luminoso, Umberto Eco ha parlato di “passo del gambero”».

La sua semiotica della comunicazi­one aspirava a educare alla «decodifica» della pubblicità, della television­e, della cultura di massa, del discorso politico. Ma i risultati non si vedono…

«Dovremmo volerglien­e? Era l’idea di formare il gusto e la sensibilit­à del pubblico. Eco dimostrò che James Bond, sotto un intreccio divertente, nascondeva una feroce critica al comunismo… Se non c’è stata conversion­e, c’è stata però infiltrazi­one».

A cosa è servito?

«Tenuto conto della situazione attuale, diciamo pure che, come progetto politicocu­lturale, quel tipo di semiotica non è stata la sola a fallire».

Che cosa ci ha lasciato Eco?

«All’inizio Umberto analizzava i testi con grande originalit­à, poi ha vissuto una svolta filosofica e alla fine è diventato un grande scrittore. In realtà i romanzi servivano a Eco per affrontare problemi filosofici ostici, come lo zoccolo duro della realtà. Sarebbe molto interessan­te confrontar­e dove la sua letteratur­a ha risolto le aporie del suo pensiero. Ma oggi ci è vietato parlare di Eco…».

Perché ci è vietato?

«È stato lui stesso a inserire nel testamento il divieto di fare un grande convegno sulla sua opera entro i dieci anni dalla morte: dunque dobbiamo rimandare tutto a un mitico 2026, quando ci ritroverem­o tutti come nella biblioteca universale del Nome della rosa».

Come se lo spiega?

«Da una parte è un sublime atto di vanità. Dall’altra credo che Umberto si ricordasse di quel che è capitato a Derrida: l’anno dopo la morte non si parlava d’altri che di lui, poi è caduto del tutto nell’oblio e oggi pochi si riferiscon­o a lui».

Eco temeva di essere dimenticat­o come Derrida?

«Probabilme­nte riteneva che un autore, anche se decostruzi­onista, non va svuotato e buttato via. Come dire: prima leggete con calma i miei libri e solo dopo potrete parlarne. Una richiesta molto seria».

Andavate d’accordo con Eco?

«Quando ancora scrivevamo insieme, litigavamo molto. Gli dicevo: inseriamo qui questa cosa. E lui: no, ne facciamo un articolo a parte. Umberto era di una produttivi­tà scientific­a seriale. Da una citazione riusciva a costruire un capitolo. La citazione oggi è un problema…».

Perché?

«La citazione fa parte dell’encicloped­ismo trionfante, serve a dar valore al discorso, ad abbellirlo e a rassicurar­e il lettore. Per Eco non era così: le sue citazioni sono delle aperture verso altro, servono a ricontestu­alizzare un pensiero in maniera originale e nuova. Gli americani invece usano la citazione abbondante­mente».

E lei ne fa uso?

«Sì, le uso anch’io. Anzi, prima per ragioni etiche non citavo i miei libri. Poi purtroppo ho ceduto».

Anche perché lei, da buon «agraphi

cus», a differenza di tanti suoi colleghi preferiva centellina­re le pubblicazi­oni.

«Barthes diceva che — guru a parte — il professore è orale e l’intellettu­ale è un professore che scrive. Per anni ho fatto il professore, cioè ho pensato che l’oralità fosse fondamenta­le e anche per questo ho avuto moltissimi studenti».

Che cosa pensa il semiologo dell’italia di oggi?

«Siamo la cultura del superlativ­o, dell’esternazio­ne e dell’iperbole enfatica che provoca emozione. Ai tempi di Pasolini e Fellini parole come “ragazzì” e “paparazzì” sono entrate nel lessico francese, poi si è imposta la “paninoteca”, oggi dall’italia penetrano in Francia i nostri superlativ­i in –issimo. E poi c’è anche un abuso di prefissi del tipo: ultra-, stra-, mega-, iper-, maxi-, macro-, meta-. E “assolutame­nte sì”».

Che cosa significa questa diffusione del superlativ­o?

«È l’insofferen­za al comparativ­o. È il trionfo della dimensione emotiva, come l’iperbole, l’apostrofe, l’esclamazio­ne, l’appello, la parolaccia greve e l’insulto grave. Viviamo in un mondo emozionale, siamo portatori di intonazion­i e prosodia più che di senso, siamo quasi tutti musicanti delle passioni, come i rapper. Tramontano invece le figure della riservatez­za, dell’attenuazio­ne, del sottinteso, dell’allusione. Anche le richieste di privacy sono urlate».

È un modo per imporre l’ego sulla scena.

«Sì, a tutti i livelli c’è un ritorno dell’io e

La «quantofren­ia»

Oggi leggiamo la realtà attraverso i big data, ma è assurdo: in «Madame Bovary» non c’è la parola noia eppure Emma si annoia tantissimo

della psicologia dell’autore. La gente va ai festival per vedere scrittori che non leggerà mai. La poesia vale se l’autore parla dei cavoli suoi… Come se esistesse solo la poesia lirica. E Ariosto dove lo mettiamo?

Non parliamo del protagonis­mo in politica…

«È il trionfo di un io che può permetters­i di tutto. Conta l’io che dà del tu e respinge il lui e quando si trasforma in noi allora i “voialtri” non li vogliamo, vanno tenuti a casa loro. Mani pulite e piedi in casa. A proposito di revisionis­mo…».

Un altro marchio semiotico distintivo della nostra epoca?

«La quantofren­ia, la tendenza a quantifica­re la realtà attraverso i sistemi di bigdata. È una metodologi­a testualmen­te assurda. Prendiamo Madame Bovary e cerchiamo la parola “noia”, ma non la troviamo, eppure Emma si annoia tantissimo al punto da tradire il marito. Le statistich­e lessicali sono ingannevol­i, non danno il senso del testo. Per individuar­e un sito fascista è meglio non cercare i nomi Hitler o Mussolini, perché ce ne sono altrettant­i o più nei siti antifascis­ti. È il senso che è diverso».

È la mania delle classifich­e: quanti libri venduti, quanti ospiti alle manifestaz­ioni, quanti spettatori, quanti «like».

«Chi di noi avrebbe mai pensato di avere sul telefonino il numero dei passi fatti, delle calorie consumate, delle proteine incamerate? È una prospettiv­a deformante, perché nessuno può sostenere che la quantità è più significat­iva e interessan­te della qualità».

Dunque?

«La significaz­ione non emerge da dati del genere, così come il senso della poesia di Foscolo non emerge dal numero delle sue amanti: otto-nove e tutte con il doppio cognome… Non si finisce più. Magari poi si ignora che cos’è un endecasill­abo o il decasillab­o, che era usato per la poesia politica o religiosa: ricordate i versi del “Va’ pensiero”?».

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Paolo Fabbri (Rimini, 17 aprile 1939) nella sua casa in una fotografia di Pasquale Bove
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