«E poi c’è Cattelan»: ritmo, sintonia con il web, professionalità
L’ intervista che Alessandro Cattelan ha realizzato a New York con Jimmy Fallon andrebbe studiata a lungo, per almeno tre motivi.
Il primo, il più semplice: sgombra il campo dagli equivoci delle scopiazzature, quell’equivoco che tanti danni ha recato alla reputazione di Daniele Luttazzi. Cattelan non ha mai negato il suo debito con i late show americani (appartiene a una generazione che li può vedere in streaming), ha importato alcuni segmenti in Italia, senza nasconderlo, così come Fallon ha pescato su Internet o altrove. Il secondo: Cattelan conosce la cultura americana da insider. Ha il privilegio di poter andare in onda su Skyuno (giovedì, ore 21.15,) e non su una tv generalista, assimilando ritmi e stili di un talk molto diverso dai nostri (nel tempo in cui Costanzo o Fazio fanno una domanda, Catellan ne ha fatte tre e ricevuto altrettante risposte). Ma non è soltanto una questione di ritmo: c’è la sintonia con il web; c’è un uso consapevole delle celebrità (anche il divismo televisivo dev’essere composto dai pochi che ce la fanno e brillano per la gioia di noi opachi che arranchiamo). Non c’è Orietta Berti, per intenderci.
Il terzo: l’intervista a Fallon è un esempio di grande professionalità. È un incontro studiato, scritto (difficile che a Fallon venga in mente di dire: «Quando presenterai Sanremo?»), preparato con grande cura.
Questo si chiama lavoro autoriale, in un tv che di solito elenca sei o sette autori per chiedere l’ora all’ospite. «E poi c’è Cattelan» è giunto alla settima edizione e andrà in onda per otto settimane. Meno convincente, a parte la brillante partecipazione del sindaco Beppe Sala, l’opening «Guestbusters», con Cattelan, Marco Villa e l’amico Argentino in giro per Milano a caccia dei fantasmi dei vecchi ospiti di «EPCC».
È un po’ un giochino da nerd, da patiti di «Big Bang Theory».