Il fronte che blocca Haftar
Il capitano Mujrab guida la resistenza di Sarraj all’attacco contro Tripoli: «Il generale ci ha tradito ma sarà lui a perdere»
Da soldato semplice della rivoluzione contro Gheddafi nel 2011 a comandante di una delle più importanti milizie che combattono le truppe di Khalifa Haftar nelle periferie della capitale. La biografia del 46enne capitano Khaled Mohammad Mujrab è anche il ritratto di tanti dei volontari che oggi stanno dalla parte del governo di Fayez Sarraj in questa guerriglia, che per molti versi ricorda le dinamiche di otto anni fa. «Anche oggi ci sono lotte interne, crescono gravi divisioni tra libici di cui approfittano potenze straniere. Un elemento che ci fa paura però adesso è il grido di vendetta che arriva dai nostri nemici. Tra loro ci sono tanti ex combattenti che sostenevano Gheddafi e ora vorrebbero vendicarsi contro di noi a Tripoli», ci spiega nell’ufficio della sua base delle Forze Speciali di Sostegno: oltre 800 uomini ben addestrati per coadiuvare le altre milizie originarie della capitale.
«Nel marzo 2011 ero ancora un ingegnere civile. La passione per la libertà mi prese come una fede, capii che potevamo finalmente ribellarci contro il regime dittatoriale. Mi unii alle milizie che si erano create tra berberi e arabi sulle montagne di Nafusa e
nella zona di Zintan», racconta. Dopo la fine dei combattimenti lui non smobilita. «Mi chiesero di restare. C’era bisogno di uomini per garantire la sicurezza delle prime elezioni democratiche nel 2012. Accettai. Poi ho partecipato ai primi tentativi nel 2014 di creare un comando unificato delle varie forze militari nella regione della capitale, ho visto crescere le tensioni con le milizie di estremisti islamici scappati dalla Cirenaica. Ho combattuto due mesi nel 2016 con le milizie di Misurata contro Isis a Sirte». Oggi l’ormai comandante veterano Mujrab accusa Haftar di aver tradito. «Due settimane prima della sua decisione di lanciare l’attacco militare mandava i suoi ufficiali a coordinarsi con noi. Miravamo a creare un comando unico tra Tripolitania e Cirenaica. Invece ci ha pugnalato alle spalle. Ma sarà lui a perdere. Credeva di poter prendere Tripoli in poche ore e si sta dissanguando».
È lui ad accompagnarci con la sua vettura sul fronte. Sono sufficienti venti minuti di viaggio dal centro di Tripoli per raggiungere gli ultimi posti di blocco volanti della polizia assieme ai giovani miliziani in mimetica. Siamo nel quartiere conteso di Ain Zara, da qui in poi sono tre chilometri chiusi al traffico civile per giungere sulla prima linea. Ogni trecento-quattrocento metri la strada è bloccata da sbarramenti di terriccio alti un paio di metri. «Garantiscono avanzate e ritirate flessibili», spiega Mujrab. Gli abitanti sono tutti evacuati, non c’è edificio che non sia danneggiato. Si vedono tracce per lo più di proiettili di piccolo calibro. Ogni tanto però il selciato e le zone attorno sono devastati anche da crateri di colpi di carri armati e bombe aeree. Si vedono uomini accovacciati nelle stradine laterali, bivacchi improvvisati, cecchini sui tetti, rottami d’auto pronti per erigere barricate volanti. Quando arriviamo sulla linea estrema del fronte i miliziani stanno sdraiati con i Kalashnikov al fianco. Da alcuni garage aperti spuntano le torrette di un paio di vecchi tank. «Noi siamo stati in grado di resistere», esclama il capitano.