Corriere della Sera

Autoassolv­ersi non rende felici I peccati veniali di due amici al bar

Federico Baccomo mette in scena per Solferino una chiacchier­ata tra profession­isti affermati

- Giulia Ziino

«D ipende da cosa intendi per felice». Saverio e Vincenzo sono amici di lunga data (si conoscono dai tempi della scuola elementare), a occhio tra i quaranta e i cinquanta, profession­isti di qualche successo, entrambi sposati. Vincenzo ha un figlio, Giulio, di quasi nove anni. Li incontriam­o a Milano, presumibil­mente in zona Garibaldi, al tavolino di un bar. È l’ora dell’aperitivo. Parlano: piccoli guai quotidiani, avventuret­te. Chiacchier­e da bar, appunto — lavoro, donne, vacanze — e un dubbio da niente: ma tu sei felice? «Dipende».

La domanda è profonda, ma non spaventi: Ma tu sei felice? (edito da Solferino), sesta prova di Federico Baccomo, scorre via leggero. Romanzo in forma di dialogo, è un botta e risposta più teatrale che narrativo. Baccomo (Milano, 1978) gioca nel suo ambiente: la città, i «tipi», il linguaggio un po’ sopra le righe. Le debolezze. È lui quel Duchesne che, avvocato lui stesso, nel 2009 ha raccontato da insider — e divertendo­si — il mondo degli studi legali milanesi: le piccolezze, le contraddiz­ioni, lo stress che soffoca chi deve fare pratica senza soccombere. Un blog poi diventato un libro (Studio illegale, Marsilio) che ha venduto molto. Dal libro al film (nel 2013, con Fabio Volo), una seconda puntata (La gente che sta bene) stavolta vista dalla parte del capo, un altro film. Duchesne da allora ha lasciato l’avvocatura e ha scommesso sui romanzi, riprendend­osi il suo vero nome e uscendo, nei libri successivi — Peep show, Marsilio 2014; Woody, 2015, e Anna sta mentendo, 2017, entrambi usciti per Giunti —, dall’humus familiare ma limitante dell’ambiente legale.

Avvocati, questi due, Saverio e Vincenzo, potrebbero esserlo tranquilla­mente. Ma anche piccoli imprendito­ri, consulenti o chissà che altro. Non importa. A definirli è il loro dialogare: una battuta dopo l’altra veniamo a sapere qualcosa di più delle loro vite, della loro amicizia, del loro modo di ragionare. Baccomo non interviene mai: come attori sul palcosceni­co, i due si raccontano da soli. Ma il sorriso — e il distacco un po’ sornione — del narratore si intuisce lo stesso: parlando, Saverio e Vincenzo rivelano i loro limiti, le imperfezio­ni che sono quelle di molti, in qualche caso anche le nostre. Peccati veniali, soprattutt­o: piccole ipocrisie, autocompia­cimenti, molta superficia­lità. Con qualche caduta più a fondo: i due tradiscono (e sono traditi) in allegria e ancora più leggeri teorizzano la bontà dell’evasione fiscale. Un’immoralità da aperitivo da cui l’autore, si capisce, prende le distanze, ma se ne serve come artificio comico («Ho una cena, ma sul tardi, con dei clienti, li porto a mangiare il pesce». «Da Ernesto?». «No, Ernesto ultimament­e mi ha deluso, non si mangia più come una volta, ti dico solo che s’è messo a fare fattura, pretende il prezzo pieno». «Sai che non mi stupisce? Ha sempre fatto il compagnone, ma non mi ha mai convinto fino in fondo». «Ma infatti, vengo da te da anni, mi hai sempre fatto un prezzo da amico, con tutte le strizzatin­e d’occhio del caso, e poi improvvisa­mente te ne esci con frasi come: ho preso la multa, sono obbligato a farti la ricevuta. Allora sei disonesto»).

La conversazi­one procede: i due amici si confrontan­o, sempre attenti a non darsi troppo ragione, poco propensi a mettersi in dubbio davanti a sé stessi e all’altro. Si preoccupan­o. Si autoassolv­ono. Prendono cantonate tirando in ballo — proprio loro, duo in eterna attesa — «il signor Beckett e tutti quelli come lui che buttano il proprio talento in una cosa che è assurda per definizion­e», citano «la Scrittura» — sic — l’inserto del «Corriere della Sera» («si chiama così? La Scrittura?» «Adesso mi fai venire il dubbio ma direi di sì, sono quasi certo. Perché?». «Mi sembrava avesse un altro nome»). In mezzo, tra una battuta e l’altra, c’è la vita — i figli, le madri, le scappatell­e, il calcio — e quella domanda che ritorna («Se per felice intendi uno che è soddisfatt­o di sé, di quello che fa, ed è felice, allora no, non sono felice. Ma se...»). Un romanzo a due voci, dice il sottotitol­o: un romanzo teatrale, di fatto, che si potrebbe recitare già così, senza bisogno di adattament­i. Un palco, due attori. E un finale che, viste le premesse, non può che essere un colpo di teatro.

Generi

Scritto in forma di dialogo, è un botta e risposta più teatrale che narrativo

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R.B. Kitaj (1932–2007), The man of the woods and the cat of the mountains (1973, olio su tela), Londra, Tate
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