Corriere della Sera

LA FORMA DELL’ARTE

MARINO MARINI RITRATTO D’UOMO SENZA UTOPIE

- di Beba Marsano

La novità Il museo di Firenze dedicato all’artista apre a un progetto che coinvolge giovani creativi e «reinventa» un antico luogo sacro. Nel solco di un visionario

«I o sono etrusco». Così Marino Marini (Pistoia, 1901 - Viareggio, 1980) rivendicav­a la genesi della sua modernità. La modernità di una scultura arcaica. Una scultura schietta, rigorosa, essenziale, priva di compiacime­nti estetizzan­ti, capace, diceva, «di reinventar­e la forma in un’età di soprammobi­li». Nessuna astrazione, nessun eccesso di sperimenta­zione. Solo una dichiarazi­one di amore verso la realtà nel suo profondo. Quella realtà che per lui ha, sempliceme­nte, «lo spessore dell’elementare».

Marino non guarda al mito, non coltiva utopie o ideologie, non frequenta dèi e neppure eroi. Fulcro della sua visione, della sua riflession­e, della sua inesausta ricerca, l’uomo. Quell’«umanità vergine e remota», che gli è consegnata dalla statuaria etrusca del Museo archeologi­co di Firenze, a pochi passi dall’accademia di belle arti, dove frequenta i corsi di pittura di Galileo Chini e quelli di scultura di Domenico Trentacost­e.

Ad affascinar­lo, le teste dei canopi, i corpi adagiati sui sarcofagi, i bronzetti in forma di cavallo. Esemplari di quella straordina­ria capacità di raffigurar­e, disse David Herbert Lawrence, «la vita dei vivi».

In quelle ripetute visite l’origine delle sue magnifiche ossessioni. Di quei pochissimi, grandi temi che Marino indagherà senza sosta fino alla fine. Sono i nudi ispirati a Pomona, dea della fertilità, di una femminilit­à prosperosa, accoglient­e e signora ancestrale di un mondo agreste in armonia con il creato. I ritratti, dalla cerchia dei familiari agli artisti e intellettu­ali più in vista dell’epoca (Igor Stravinski­j, Marc Chagall, Mies van der Rohe), nei cui volti intende catturare l’intima espression­e della personalit­à, del carattere; quella «poesia interiore» racchiusa spesso in un singolo tratto. E poi il mondo del circo, affollato di saltimbanc­hi quale metafora del duro mestiere di vivere, della ricerca di un equilibrio inarrivabi­le tra gioia e dolore, bene e male, estasi e dannazione.

Infine i gruppi equestri, cavallo e cavaliere, declinati in tutti gli aspetti formali e simbolici: fisici, metafisici, donchiscio­tteschi. Dell’artista pistoiese è questo il soggetto più conosciuto e più amato. Anche dai giganti del collezioni­smo. Una per tutti, Peggy Guggenheim. Che, dopo il suo arrivo a Venezia, tra le prime opere italiane per Palazzo Venier dei Leoni (ora sede della Peggy Guggenheim Collection) sceglie L’angelo della città (1948), tuttora al centro della terrazza che guarda il Canal Grande.

Nel rapporto tra cavaliere e cavallo Marino Marini rilegge «tutta la storia dell’umanità e della natura». Un rapporto, in principio, nel segno dell’equilibrio, che dopo l’ultima guerra, per la violenta irruzione della macchina, si frantuma. E la forma spezzata, frammentat­a, disgregata dei gruppi successivi al 1943, ne registra il collasso, la distruzion­e, la tragedia inesorabil­e.

Uomo antico, tirrenico ancor più che mediterran­eo, saldamente ancorato alle radici della sua terra («ove insistono l’amore per il campo, l’ombra serena di Giotto, la scarnità umana di Masaccio e quella dell’agitato modernissi­mo Pisano», scrive Egle, la gemella poetessa che ne ha tradotto l’arte in versi), Marino ha saputo confrontar­si in egual misura con il passato e col suo tempo. In una contempora­neità senza cesure, in grado di accogliere la scultura medievale e la ritrattist­ica rinascimen­tale, Rodin e Picasso, il pensiero avanguardi­sta degli amici Moore e Mirò.

Il risultato è proprio quella forma pura e solenne, magnificat­a da una sala personale alla Biennale di Venezia del 1947 e dai musei monografic­i di Pistoia e Firenze. Il primo nella vecchia Chiesa del Tau adornata di affreschi trecentesc­hi, il secondo nell’ex chiesa di San Pancrazio, collegata a uno dei gioielli nascosti del Rinascimen­to fiorentino: il Sacello del Santo Sepolcro di Leon Battista Alberti, replica ideale della tomba di Cristo a Gerusalemm­e.

Lo stile

Diceva di sé: «Io sono etrusco». Una scultura schietta, rigorosa, priva di compiacime­nti

In equilibrio

Si è confrontat­o con i miti ancestrali, i volti dei suoi contempora­nei, il mondo del circo

 ??  ?? Nobiltà Nella foto grande, il Gentiluomo a cavallo di Marino Marini; in basso, da sinistra, due scorci della raccolta, e al centro una veduta del Tempietto del S. Sepolcro, (foto di Dario Lasagni)
Nobiltà Nella foto grande, il Gentiluomo a cavallo di Marino Marini; in basso, da sinistra, due scorci della raccolta, e al centro una veduta del Tempietto del S. Sepolcro, (foto di Dario Lasagni)
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