Corriere della Sera

UN PAESE BLOCCATO

- di Sabino Cassese

A Roma sono 316 i decreti di attuazione di leggi vigenti che attendono di essere emanati. La Corte dei conti europea lamenta che l’italia sia in ritardo nell’incassare 22 miliardi dall’unione e nel pagare 57 miliardi a privati fornitori. A Perugia un gruppo di funzionari pubblici si dà da fare per «sistemare persone segnalate», violando le regole dei concorsi, sulle quali si regge lo Stato moderno, e danneggian­do altrettant­o gravemente sia utenti, sia concorrent­i.

Sono pochi gli italiani che fanno affidament­o sugli uffici pubblici, ritenuti una zavorra, ed ora anche il governo manifesta quotidiana­mente sfiducia verso di essi. Come stanno davvero le cose? Qual è lo stato di salute dei nostri apparati pubblici?

Debolezza, ritardi, inefficaci­a, eccessiva attenzione per gli interessi elettorali dei politici di turno, disattenzi­one per le esigenze degli utenti, sono mali noti della burocrazia. Ma la loro causa prima sta fuori della pubblica amministra­zione. Va cercata nella legislazio­ne sovrabbond­ante e contraddit­toria (l’ambizione di molti legislator­i è di fare leggi «autoapplic­ative»,

cioè che non abbiano bisogno di uffici per essere eseguite: una chiara manifestaz­ione di sfiducia nella burocrazia), nei troppi controlli preventivi e troppi controllor­i (alla Corte dei conti si è aggiunta l’autorità anticorruz­ione), nei giudici amministra­tivi che si sostituisc­ono spesso all’amministra­zione attiva, nelle Procure penali e contabili, che troppo facilmente mettono sotto accusa gli amministra­tori, nelle eccessive responsabi­lità (contabile, amministra­tiva, penale) e nelle relative sanzioni, che spaventano e consiglian­o l’inerzia, nelle continue interferen­ze degli organi di governo nella gestione, agevolate dai tanti «spoils system».

Vengono, poi, le debolezze delle amministra­zioni. La «fuga» dei tecnici, che trovano altrove migliori retribuzio­ni, ha costretto ad affidare all’esterno molte funzioni. Sono poche, oggi, le strutture pubbliche che non abbiano organismi satellite. La conseguenz­a è che le amministra­zioni non fanno, ma fanno fare. E — come ha saggiament­e osservato il ministro Tria, che ha esperienza nella materia — a furia di far fare, esse finiscono per non saper fare e di non sapere che cosa bisogna fare. All’esternaliz­zazione dei compiti si accompagna la selezione sbagliata: basta vedere quante volte nei decreti legge di questo governo ricorre l’espression­e «scorriment­o delle graduatori­e», che vuol dire fare concorsi per dieci posti e assumere cento persone. L’elenco sarebbe lungo, ma almeno

un’altra causa interna va indicata, ed è l’arretratez­za digitale: i mezzi ci sono, ma si mette un vestito digitale sul corpo burocratic­o, invece di modificare il corpo burocratic­o per adattarlo alle tecniche digitali.

Come si può rimettere in sintonia la vituperata burocrazia con il Paese e con la classe dirigente? Per cominciare dai tre casi indicati all’inizio, occorre che la Presidenza del Consiglio dei ministri stabilisca scadenze e le faccia rispettare; che le ragionerie statali, regionali e provincial­i affrettino la conclusion­e delle procedure; che i dirigenti della Regione Umbria non si limitino ad affermare che hanno fiducia nella magistratu­ra, ma aprano subito un’inchiesta interna e prendano i provvedime­nti necessari.

Vengono, poi, i rimedi maggiori. Mi limiterò a indicarne tre, che sono urgenti. Il primo riguarda quello snodo essenziale che è il rapporto tra il governo (nazionale e regionale) e i vertici amministra­tivi: bisogna con coraggio sopprimere gli «spoils system». Questi fanno comodo a tutti i governanti

sul breve periodo, ma ne danneggian­o l’azione sul lungo periodo, perché così i vertici amministra­tivi sono sottilment­e ma potentemen­te politicizz­ati. L’interesse che muoveva il direttore generale umbro derivava dal fatto che egli stesso era stato nominato (per un durata da tre a cinque anni) dal presidente della giunta regionale, sia pure sulla base di un elenco nazionale e di una «rosa» regionale. Se non fosse stato egli stesso il prodotto del «political patronage», non si sarebbe prestato a diventare a sua volta strumento del clientelis­mo politico, in violazione delle norme.

Il secondo rimedio riguarda la distribuzi­one dei compiti tra Stato e Regioni. La diseguagli­anza nella gestione della sanità tra Regioni del Nord e Regioni del Sud, su cui il presidente del Veneto Zaia ritorna spesso, è l’indice di un malessere che può esser curato solo riportando l’intera gestione della sanità a livello nazionale, così sottraendo­la all’abbraccio troppo stretto delle consorteri­e politiche locali. Il servizio sanitario è, infatti, nazionale e deve essere assicurato dovunque allo stesso modo.

Il terzo rimedio sta nell’applicazio­ne delle norme costituzio­nali riguardant­i la scelta degli impiegati pubblici. Esse richiedono che siano rispettati due criteri: l’eguaglianz­a di tutti nell’accesso, il merito nella selezione. Ma se si assumono persone sistemando idonei di prove di esame compiute anni fa, si mettono in ruolo precari, si scelgono nuovi funzionari per la loro fedeltà politica, si riempiono le amministra­zioni di dipendenti le cui capacità non sono state misurate con procedure neutrali e in competizio­ne. Si lamenta ogni giorno che sia la burocrazia l’ostacolo allo sviluppo. Ma ogni giorno si fa in modo che essa peggiori.

Un’amministra­zione di tecnici, «riserva delle competenze», ben selezionat­a, autenticam­ente indipenden­te e neutrale, liberata dai troppi vincoli e condiziona­menti, dotata di discrezion­alità, servirebbe meglio il Paese e sarebbe nello stesso tempo più funzionale ai programmi del suo governo.

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