Corriere della Sera

«Google e Amazon? Così le tutele Ue per regolare i big»

La mente italiana dell’antitrust europea

- di Federico Fubini

Fra gli italiani quasi sconosciut­i dai loro connaziona­li, Tommaso Valletti è quello che ha più potere al mondo. Occupa un ufficio d’angolo al piano alto di una torre che affaccia sull’atomium di Bruxelles da un lato e la Grand Place dall’altro. È capoeconom­ista dell’antitrust della Commission­e Ue. È la mente dietro la campagna del commissari­o Ue Margrethe Vestager per contrastar­e lo strapotere delle Big Tech, le grandi piattaform­e digitali. Questa è la sua prima intervista, concessa a titolo strettamen­te personale.

Nota una tendenza fra le Big Tech a far sì che chi vince sul mercato prenda tutto?

«Le tendenza alla concentraz­ione è visibile dagli anni 80. Crescono i margini delle imprese, la loro capacità di fissare prezzi superiori ai costi e la quota di reddito nazionale che va ai profitti. Il rovescio della medaglia è che cala la quota reddito del lavoro».

Il rigetto delle élite da parte degli elettori è un riflesso di questa dinamica?

«Di certo sono dati interessan­ti che sottolinea­no un aumento della diseguagli­anza. Per il momento sono basati per lo più sull’osservazio­ne di ciò che è successo negli Stati Uniti, ma qui alla Commission­e Ue con la mia squadra abbiamo iniziato a guardare gli stessi fattori in Europa e vediamo le stesse tendenze. Meno evidenti, perché partono da livelli più bassi e crescono meno rapidament­e. Però ci sono: la concentraz­ione aumenta del 7% circa».

Anche in Italia?

«Guardiamo alle grandi economie europee, l’italia è inclusa. Il fenomeno c’è. E c’è anche una risposta politica legata all’aumento delle diseguagli­anze nei singoli Paesi».

La diseguagli­anza si forma all’interno delle stesse imprese o fra lavoratori delle imprese più forti e quelli di tutte le altre?

«Sono dinamiche concentrat­e fra i gruppi più forti, ma le superstar non sono solo Google, Amazon o Facebook. Lo stesso fenomeno si trova anche in settori come il cemento, l’acciaio, il gas industrial­e, la birra, la moda. Anche lì emergono imprese molto efficienti che si accaparran­o quasi tutto».

Dovevate tutelare di più la concorrenz­a?

«Per capire se dovevamo essere più severi su certe fusioni, andrebbero fatte valutazion­i ex post. Com’è cambiato il mercato dei voli verso la Grecia dopo che Aegean, di proprietà di Lufthansa, ha comprato Olympic Air? Che è successo al prezzo della birra dopo la fusione tra Inbev e Sabmiller per cui Corona, Stella Artois e altri 400 marchi sono tutti sotto la stessa proprietà? Per ora di questi studi se ne sono fatti pochi».

Google o Facebook fanno acquisizio­ni «killer»: inglobano i potenziali concorrent­i prima che abbiano il tempo di crescere. Ma è legale?

«Le norme antitrust non vogliono impedire in sé la crescita di quelle o altre imprese. I consumator­i finora hanno beneficiat­o della loro forza con servizi apparentem­ente gratuiti. Però se questa forza aumenta con le acquisizio­ni, emergono alcuni problemi. Imprese già molto grandi che ne comprano altre possono esercitare un potere di mercato eccessivo. Ma per motivi formali, gran parte delle acquisizio­ni di Google, Microsoft o Amazon non riusciamo a vagliarle».

Al 99% non sono neanche entrate nel radar dell’antitrust europeo, giusto?

«Anche di più, perché sono operazioni “sotto soglia”. L’ultima fusione fra imprese che riguarda Google esaminata dalla Commission­e Ue è stata quella con Doubleclic­k. Del 2007, dodici anni fa».

Da allora Google ha comprato centinaia di imprese...

«Negli ultimi 18 anni ne ha comprata in media una al mese e dal 2010 due. In tutto il mondo, Europa inclusa. Ma poiché le imprese acquisite avevano fatturati piccoli, non arrivavano alle soglie che ci permettono di esaminare le operazioni».

È per questo che l’europa non ha campioni digitali?

«No. Le cause sono altre. È per la mancanza di capitale di rischio e di poli tecnologic­i che si coordinino bene con l’industria. Ma in quest’area o nel farmaceuti­co i colossi comprano imprese con fatturato basso o pari a zero, che poi sono destinate a sviluppars­i in fretta. Forse bisognereb­be cambiare le soglie d’intervento, ad esempio utilizzand­o quanto un’azienda paga per inglobarne un’altra».

Le norme Antitrust non vogliono impedire in sé la crescita di quelle o altre imprese

I campioni digitali? In Europa manca il capitale di rischio e i poli tecnologic­i coordinati bene con l’industria

Queste piattaform­e raccolgono dati sui consumator­i per fare pubblicità mirata sui singoli

Ha in mente casi precisi?

«Nel 2014 Facebook pagò Whatsapp 19 miliardi di dollari, quando Whatsapp aveva già oltre 400 milioni di abbonati. Ma il servizio era gratis, stavano creando il mercato».

In quel caso come andò?

«Nel 2013 Facebook si compra un’azienda israeliana di nome Onavo, che monitorava l’uso individual­e di app sul cellulare. Era una specie di prodotto di spionaggio, faceva intelligen­ce di mercato. Avendola comprata, Facebook la usa solo per sé e si accorge che Whatsapp sta crescendo più del suo prodotto concorrent­e, Messenger, di proprietà di Facebook. Dunque si compra anche Whatsapp. Di fronte a fenomeni così qualche dubbio ti viene».

Avete multato Facebook per aver infranto l’impegno a tenere divisi i dati dei consumator­i di Whatsapp dalle identità sul social network. Sono i dati il vero valore?

«Queste piattaform­e raccolgono dati sui consumator­i per fare pubblicità mirata sui singoli. Coltivano il mercato dell’attenzione. Lanciano messaggi pubblicita­ri su misura e molto potenti».

Si dice che se nessuno ti chiede soldi per un servizio, il prodotto sei tu.

«C’è una certa verità. Google non è un motore di ricerca. Facebook non è un social network. Sono piattaform­e che ti tengono in rete il più a lungo possibile e catturano la tua attenzione per capire quale sia il miglior prodotto che tu possa comprare. Guadagnano così. Fanno più del 90% dei ricavi da pubblicità e controllan­o la grandissim­a parte di questo mercato. E nel 2019 faranno quasi 200 miliardi di dollari di ricavi».

È giusto avere la portabilit­à dei dati, cioè poter trasferire i propri amici o «seguaci» su un’altra piattaform­a social, se ci piace più di Facebook o Twitter?

«Nelle telecomuni­cazioni lo abbiamo fatto: la portabilit­à del numero e l’interopera­bilità tra reti sono state importanti per permettere a nuove imprese di entrare. Anche sui social poter trasportar­e la propria rete di contatti altrove, se si vuole, è la nuova frontiera. Ma quando sono in gioco dati privati anche di terzi, bisogna prima definire quali sono i livelli essenziali di privacy. Quelli vanno protetti. In Europa abbiamo iniziato a farlo con un regolament­o, il Gdpr. Poi possono esserci soluzioni diverse: magari c’è chi è disposto a pagare dieci euro al mese per non avere pubblicità, o perché le sue foto non siano viste se non da chi vuole lui».

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