Bloccati Facebook & Co Da simboli di libertà a «veicoli» dell’odio
Anche l’onu ha denunciato le colpe dei social
NEW YORK Fino a non molto tempo fa un blocco di tutte le principali reti sociali come quello deciso dal governo dello Sri Lanka dopo i massacri del giorno di Pasqua sarebbe stato condannato come un grave atto liberticida. Stavolta, invece, sono le stesse organizzazioni per la tutela dei diritti digitali a dirsi d’accordo con questa misura estrema, presa per evitare guai peggiori: nuove ondate di violenza da parte di una popolazione sotto choc, scatenate dalle notizie false che continuano a essere messe in rete per incendiare gli animi.
La decisione di bloccare temporaneamente le reti dalle quali dipende la formazione delle opinioni politiche in Sri Lanka e, ormai, in gran parte del mondo (quelle che fanno capo a Mark Zuckerberg — Facebook, Instagram, Whatsapp — ma anche Youtube, Snapchat e Viber) riflette la sfiducia, ormai planetaria, nella capacità di queste società di filtrare in modo efficace i messaggi che circolano sulle loro piattaforme. Ma la misura, per quanto drastica, è destinata a rivelarsi poco efficace: un anno fa, quando un blocco analogo fu deciso nella grande isola dell’oceano Indiano per cercare di spegnere l’incendio di un conflitto tra musulmani e cingalesi buddisti alimentato da notizie false diffuse a raffica e sfociato in numerosi linciaggi, il traffico sui social network non fu affatto cancellato, ma solo dimezzato. Molti utenti sono, infatti, ormai capaci di aggirare i blocchi usando le Vpn (reti private virtuali).
Un altro segno dei tempi: le Vpn, un tempo viste come strumento di libertà capace di vanificare la censura imposta da regimi autoritari, da Pechino a Teheran, ora servono a fomentare odio e disordini.
Quello dello Sri Lanka è solo l’ultimo caso. Forse il più clamoroso, ma non il più grave: per anni in Birmania l’odio contro la minoranza musulmana dei Rohingya è stato alimentato dai messaggi postati sulle reti sociali soprattutto da estremisti buddisti. Attacchi verbali sfociati in linciaggi e poi in un vero e proprio genocidio: migliaia di morti. Ormai la responsabilità delle reti sociali, e soprattutto di Facebook — che in Birmania e altri Paesi asiatici è di gran lunga il veicolo principale per la circolazione delle informazioni, politiche e non — è stata denunciata anche dall’onu.
Facebook si è difesa prima dichiarandosi non responsabile per i contenuti immessi dagli utenti nelle sue reti e poi promettendo di filtrare questi messaggi per bloccare quelli potenzialmente più pericolosi. In realtà per anni Facebook ha ignorato le denunce e gli appelli che le arrivavano in continuazione, muovendosi solo quando la strage dei Rohingya è uscita dai circuiti informativi asiatici, cominciando a provocare indignazione anche in Occidente.
Ma i casi sono ormai innumerevoli e incontrollabili: da quello più strettamente politico del Brasile, all’india percorsa dalla violenza omicida di chi crede al complotto delle minoranze che rapiscono i bambini o diffondono pillole della sterilità nelle comunità dominanti.
In Brasile, ha detto di recente in un’intervista al Corriere Tristan Harris, la «coscienza etica» della Silicon
India
Altri casi
Per anni l’odio contro la minoranza musulmana dei Rohingya è stato alimentato dai messaggi postati su Facebook e i social soprattutto da estremisti buddisti. Attacchi verbali sfociati in linciaggi e poi in un genocidio, con migliaia di morti nel 2017
L’attuale presidente Jair Bolsonaro, entrato in carica il 1° gennaio 2019, è stato in pratica «eletto da Facebook», che ha diffuso informazioni politiche su di lui e i suoi avversari rivelatesi veritiere solo nell’8% dei casi, come afferma Tristan Harris, direttore del Center for Humane Technology
Le «fake news» diffuse attraverso Whatsapp hanno portato a casi di violenza omicida contro le minoranze, accusate di rapimenti di bambini o di diffondere pillole della sterilità nelle comunità dominanti. La polizia è andata a spiegare con i megafoni che erano solo storie inventate, ma è stato inutile