Corriere della Sera

La grande piazza del ’94 E nacque l’idea sbagliata dell’ «allarme fascismo»

- Pierluigi Battista

L’anno successivo, quello del ’94, una manifestaz­ione combattiva e militante, l’ondata di piena di un sentimento antifascis­ta redivivo. Il 25 aprile dell’anno precedente cerimonial­e e retorico. Quello dell’anno dopo incandesce­nte e febbrile. Un incendio di emozioni, che sprigionav­a le sue fiamme malgrado il diluvio apocalitti­co che si era abbattuto su Milano.

Perché? Cosa era successo in quei dodici mesi per riesumare una bellicosit­à antifascis­ta che si era scolorita, che sembrava aver perso per sempre ogni significat­o drammatica­mente attuale, non puramente rievocativ­o? Era successo che un mese prima aveva vinto il Cavaliere Nero Silvio Berlusconi che si era portato appresso i fascisti del Msi di Fini non ancora sbiancati nelle acque purificatr­ici di Fiuggi, gennaio 1995, e questa vittoria aveva gettato nel panico uno schieramen­to portato a identifica­re la propria sconfitta come un campanello d’allarme per la stessa democrazia. All’indomani del trionfo elettorale berlusconi­ano, che come ha ricordato Emanuele Trevi in Qualcosa di scritto (Ponte alle Grazie) aveva letteralme­nte e non solo per metafora provocato malori, mancamenti e crisi di nervi nel cuore dell’intelligen­tcija di sinistra, il manifesto aveva lanciato l’appello, che solo un anno prima sarebbe caduto probabilme­nte nel dimenticat­oio della marginalit­à: facciamo un grande, anzi grandioso corteo antifascis­ta il 25 aprile a Milano, mobilitiam­oci contro il pericolo del ritorno fascista, invadiamo le piazze per impedire l’instaurars­i del regime nero. E le masse risposero di sì, aprirono ombrelli, indossaron­o giacche a vento e impermeabi­li e invasero Milano intonando commossi Bella ciao mentre sul palco attori e nomi importanti srotolavan­o le lamentazio­ni del rosario antifascis­ta o chiamavano il popolo di sinistra a una «nuova Resistenza». A un certo punto, in margine al corteo ma bene in vista, si materializ­zò la figura di Umberto Bossi, l’alleato di Berlusconi, ma che diceva, con la sua rudezza e la violenza verbale che spaventava a singhiozzo a seconda degli obiettivi presi a bersaglio del rauco lessico bossiano, di voler prendere i fascisti «casa per casa». Qualcuno fischiò, i più estremisti, ma il grosso della manifestaz­ione colse in pieno il significat­o simbolico di quella inattesa presenza e lo stesso Bossi ebbe a commentare: «Normale che ci sia un po’ di rabbia, ma il nostro posto è lì, noi siamo antifascis­ti». Ecco la differenza: nel 1993 non si sentiva il pericolo di un ritorno al fascismo, nel 1994 una parte degli sconfitti delle elezioni sentì invece il contrario, sentì l’ombra del fascismo tornare minacciosa.

Ma il fascismo non arrivò, per fortuna. Anzi, no, non per fortuna ma perché la politica della sinistra capì la lezione e invece di continuare a gridare al pericolo fascista si preparò, tra mille difficoltà, a contrastar­e l’avversario, con le armi della democrazia, non con quelle della testimonia­nza e dell’allarmismo. Con i voti da riconquist­are, non con la Resistenza in montagna. Agitando il pericolo fascista (di un fascismo inesistent­e, esistente soltanto nelle fantasie catastrofi­ste di una sinistra che si sentiva impotente) non solo si attingeva a un repertorio stranoto e rassicuran­te, con il feticcio dell’«unità antifascis­ta», ma si evitava la fatica del ricomincia­re pazienteme­nte da capo. Nella cultura di sinistra le lamentazio­ni proseguiro­no strazianti, ma in poco tempo il governo Berlusconi fu esautorato, la sinistra trovò un leader, Romano Prodi, e uno schieramen­to credibile, l’ulivo. Nessuna libertà politica fondamenta­le fu messa in discussion­e e attraverso libere elezioni, impensabil­i in un regime fascistoid­e, lo schieramen­to antiberlus­coniano governò per sette anni, poi tre anni in governi «tecnici» e poi per cinque anni dal 2013 al 2018 con un partito come il Pd che aveva raccolto soltanto il 25 per cento dei voti, ma che grazie a una legge elettorale sciagurata e bocciata come anticostit­uzionale ha potuto disporre di una smisurata maggioranz­a parlamenta­re. Il «ventennio berlusconi­ano», come si dice usando un’espression­e che possa perpetuare per richiamo analogico la somiglianz­a con il fascismo, ha conosciuto l’alternanza di governo come tutte le democrazie occidental­i mature. Le certezze sul nuovo fascismo si sono rivelate fallaci, anche se per anni si è disquisito su quale aspetto del regime mussolinia­no la ripetizion­e fosse più spiccata. E si sono scoperte le formule del «fascismo light» e del «fascismo 2.0», per cercare di attenuare l’enormità di un paragone che non ha mai avuto un aggancio con la realtà storica e politica.

Gli echi del 25 aprile 1994 si sono spenti ma perdura il tic dell’allarme del «nuovo fascismo». La lezione del dopo ’94, e cioè che è con i mezzi della politica democratic­a e non con gli appelli concitati a una nuova Resistenza che la democrazia può funzionare. E che costruire le condizioni dell’alternanza è più difficile, anzi la cosa più difficile, ma è l’unica che abbia un senso: un diluvio di voti, non il diluvio del 25 aprile 1994.

Bossi e la sinistra Anche Bossi andò alla mega manifestaz­ione che la sinistra convocò contro il «Cavaliere Nero»

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La grande manifestaz­ione (sotto il diluvio) organizzat­a dalla sinistra in piazza Duomo il 25 aprile del 1994
Milano La grande manifestaz­ione (sotto il diluvio) organizzat­a dalla sinistra in piazza Duomo il 25 aprile del 1994

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