A Kiev fantasia al potere? Se la serie tv diventa politica
Sarebbe un errore paragonare il nuovo presidente dell’ucraina, Volodymyr Zelensky, con Beppe Grillo. Non ha dato vita a un proprio movimento prima di entrare in politica ma ha scelto di condurre la sua campagna sull’onda di una serie televisiva di successo, in cui interpreta un professore che, catapultato per caso alla guida di un Paese assai somigliante all’ucraina, riesce a scardinarne la rete di corruttele. Ha sbaragliato il campo senza presentare un vero programma, trasformando di fatto il personaggio televisivo in candidato reale con un’operazione mediatica abilissima e senza precedenti, che dovrebbe far riflettere. Non si era dato sin qui il caso di qualcuno che diventasse capo di uno Stato in forza di uno script televisivo. Il voto è stato privo delle tensioni delle tornate precedenti e senza vere irregolarità; difficile dire se perché le regole del gioco democratico sono state assorbite, o se la percezione della loro sostanziale inutilità ha annacquato le velleità di confronto di un elettorato che resta profondamente scisso fra un Est che sente il peso dell’occupazione russa e un Ovest che guarda all’europa, mentre una ristretta élite controllata da oligarchi si spartisce il potere, dinanzi a una campagna da cui si emigra per sfuggire a una miseria apparentemente senza rimedio. Kiev conserva nelle sue basiliche dalle cupole dorate la memoria storica della Rus ed espone nella sua
opulenza esitante una volontà un po’ pacchiana di Occidente, ma basta allontanarsi di pochi chilometri per fare un salto indietro nel tempo. Gli abiti della gente, le insegne dei negozi, la povertà dell’illuminazione, persino alcuni dettagli dimenticati (nella vecchia Urss era per qualche misteriosa ragione impossibile trovare tappi per i lavandini; oggi in Russia ci sono, ma nella provincia ucraina no…) rimandano a un grigiore che era il segno unificante dell’ex impero sovietico. Lungo strade dissestate che farebbero la consolazione di Virginia Raggi corrono vecchie auto Lada e Moskvitch; nelle città e paesi le decrepite krusciovke dell’edilizia popolare sovietica (che Mosca ha deciso di demolire) si alternano alle vecchie izbe contadine, restaurate qua e là grazie alle rimesse degli emigranti. La linea di faglia che ha attraversato a lungo le due Europe ha cambiato pelle ma non è scomparsa e l’ucraina ne è sempre al centro.
L’annessione della Crimea e la guerra nel Donbass hanno compattato una reazione antirussa che, sull’onda della «rivoluzione del Majdan», ha assunto un carattere nazionalista sempre più acceso; dalla sostituzione a tappeto dell’ucraino al russo alla rescissione del legame storico fra la Chiesa ortodossa ucraina e il Patriarcato di Mosca. Il candidato sconfitto, Petro Poroshenko, ne aveva fatto il suo cavallo di battaglia ma tutti senza eccezione i candidati vi si sono uniformati, reclamando l’ingresso nella Nato e l’adesione all’ue. Che entrambe siano viste dall’opinione pubblica come una garanzia efficace di sicurezza e una chiave verso un futuro meno gramo è fuori di dubbio; i rapporti possono e devono essere rafforzati, ma al tempo stesso pensare di spostare ulteriormente la linea di contatto fra partners non più nemici e tornati rivali, ignorando la logica della storia e la stessa geografia, potrebbe non convenire a nessuno e in particolare alla stabilità in Europa.
Le mosse di Putin rispondono a una logica interna che si è rivelata sinora per lui vincente, ma le provocazioni non risolvono i problemi e — anche se è vero che la crisi colpisce soprattutto l’ucraina — a lungo termine danneggiano tutti. I modi per affrontare in maniera costruttiva il tema dell’autonomia, dell’autodeterminazione e della tutela delle minoranze ci sono, così come sono numerosi gli strumenti internazionali utilizzabili, a partire da quell’atto finale di Helsinki che ha reso possibile l’evoluzione democratica del continente. Quella che manca è la volontà politica. Il fronte politico ucraino resta quasi senza eccezioni compatto sulla linea di contestazione delle provocazioni russe; vi si è unito anche Zelensky il quale, presentandosi come un «uomo nuovo» senza zavorre ideologiche nel suo bagaglio, non è entrato in dettagli e ha lasciato intravvedere qualche segno di apertura (raccolto dopo la sua vittoria da Mosca con un tempismo sospetto, che potrebbe essere ancora una volta controproducente). Lo spazio per gli errori di entrambi resta ampio, ma se da presidente Zelensky dovesse sorprendere tutti con un serio sforzo per uscire dall’impasse, dimostrerebbe che, in Ucraina, i comici possono risultare meglio dei politici nella difficile arte di governo.
Operazione riuscita
Ha sbaragliato il campo senza presentare un vero programma, trasformando di fatto il personaggio in candidato reale