Quel grido, 25 anni fa «Addio all’apartheid»
Ora la nuova sfida dell’anc è superare le denunce per corruzione
Sotto a uno delle migliaia di cartelli con scritto «jobs, not corruption» (lavoro, non corruzione), affissi a ogni angolo di strada sudafricana in questo periodo di campagna elettorale, due poliziotti (spero finti) mi spazzano dal portafogli 2.000 rand, circa 130 euro. Sono le 11 del mattino, il passante che cerco di coinvolgere chiedendogli se davvero sono poliziotti, risponde: «Certo, non vedi?». Capisco che è meglio lasciarsi truffare con il sorriso sulle labbra, per fortuna ho preso un biglietto di andata e ritorno da Johannesburg. Così sgommano via e posso gettare lo sguardo oltre i cancelli, sui Botha Lawns che annunciano gli Union Buildings di Pretoria. Splendido colpo d’occhio: la rigogliosa vegetazione africana, le jacarande blu sfiorite in quest’annuncio soleggiato d’autunno australe e, lassù, il Palazzo del governo. Verrebbe da dire che la sua forma a semicerchio abbraccia la città ma, fino a 25 anni fa esatti, era la morsa che stringeva il Paese nell’infamia dell’apartheid. Fu così che la notte stessa dell’insediamento di Nelson Mandela a presidente del Sudafrica immaginarono di disturbarne lo sguardo occhiuto impiantandovi un immenso Madiba benedicente.
Era il 10 maggio 1994, dal palazzo Mandela scese in mezzo alla gente danzando al ritmo degli African Jazz Pioneers. Più in basso, un fiume di giovani faceva il trenino dietro a una bara in palissandro con su scritto «Hamba kahle apartheid» (addio all’apartheid). Non c’è parola, in una delle nove lingue ufficiali autoctone parlate in Sudafrica, per tradurre quel neologismo politico apparso, per la
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Un fiume di giovani faceva il trenino dietro a una bara in palissandro
prima volta, nel 1929 e assurto a regime dopo le elezioni del 1948. Ne avvertirono l’assurdità persino i discendenti degli olandesi sbarcati in questa punta estrema dell’africa nel 1652: attribuirono l’origine del termine al francese «à part», giustificandolo come difesa della comunità afrikaner.
In quattro anni di libertà, il galeotto Nelson Mandela (lo era stato per 28 anni, dal 1962 al 1990) aveva compiuto il miracolo. Fu l’ultimo dei leader dell’african National Congress (Anc) a essere liberato. Prima negoziò, dalla sua cella di Victor Verster, nei pressi di Città del Capo, la scarcerazione di otto prigionieri politici e si assunse la responsabilità di dichiarare al mondo che il presidente Frederik De Klerk era un «galantuomo». Incontrò addirittura, per dare impulso alle trattative, il suo predecessore, Die Groot Krokodil, il Grande Coccodrillo Pieter Botha, acerrimo difensore del regime segregazionista.
In quell’ottobre 1989 crollava il Muro di Berlino e la notizia, in Occidente, passò inosservata, mentre in Africa le teste calde dell’anc accusarono «il vecchio» di essersi bevuto il cervello. Ma il galeotto più famoso della Storia, festeggiato l’anno prima con un concerto allo stadio Wembley di Londra, aveva avuto trent’anni per studiare il nemico. L’isolamento del Sudafrica e il marxismo finito in soffitta rendevano la fine dell’apartheid ineluttabile; una devastante guerra civile, però, poteva prenderne il posto. Lo sapeva Mandela e lo sapeva De Klerk, che il 2 febbraio 1990 svelò in cosa consistesse quel «galantuomo» attribuitogli da Madiba: annunciò la revoca del bando per l’anc e gli altri partiti. Curiosamente restò in prigione solo Mandela, entrato perfettamente nel ruolo del giocatore di scacchi in questa complicatissima partita. Avrebbero voluto rilasciarlo prima e portarlo a casa sua, a Soweto. Lui rifiutò, disse che sarebbe uscito di galera per ultimo e avrebbe varcato i cancelli con i suoi piedi, in una scenografia da film hollywoodiano destinata a rimanere impressa nelle coscienze. Non disse nulla nemmeno con i suoi, che avrebbero preferito disinnescare le trattative con De Klerk.
Sul terrazzo al primo piano del municipio di Città del Capo, davanti alla Grand Parade, dove ora, al calar del sole, smontano i banchetti di cianfrusaglie e gli homeless si apprestano a imbastire le cucce per la notte, un Mandela ad altezza naturale, il braccio alzato, parla ancora al Sudafrica, in un tripudio di fiori acquistati nel vicino mercato di Trafalgar. Sulla sinistra, come a Pretoria, domina l’altro simbolo, il più antico, dell’oppressione: il Castello di Buona Speranza, speranza buona per la Compagnia olandese delle Indie orientali che lì programmò la cacciata degli autoctoni. Mentre dai cancelli della prigione raggiungeva quel balcone, Mandela comprese che la partita sarebbe stata più difficile del previsto. Il tratto di strada da percorrere fu tortuoso, un presagio del viaggio che attendeva il Paese per giungere alla democrazia. La città era un focolaio pronto a divampare e l’autista deviò nel sobborgo di Rondebosch. Poco dopo lo raggiunse l’arcivescovo Desmond Tutu, angosciato: «Madiba, vieni subito in Municipio, altrimenti scoppia una sommossa». L’inviato del New Yorker annotò: «Mandela non somiglia al ritratto del pugile avanti con gli anni che circola. Uno sconosciuto alto e affascinante avanza a grandi passi nel mondo. Il suo viso è trasfigurato in tratti scultorei che ricordano le antiche relazioni tra gli xhosa e i khoi, e la sgraziata riga tra i capelli è scomparsa. Sospirano allo stesso modo top model e filosofi…».
Due settimane dopo, al King Park Stadium di Durban, Mandela venne sommerso dai fischi mentre esortava: «Prendete pistole, coltelli e panga (macete, ndr) e gettateli a mare!». Ma non si lasciò zittire e continuò a tessere la sua tela in mezzo alla tempesta. Allo stesso tempo l’estrema destra bianca creava incidenti per contrastare «l’arrendevolezza» di De Klerk. Il 10 aprile 1993, un immigrato polacco assassinò uno dei più popolari leader sudafricani, Chris Hani. La guerra civile fu scongiurata da una donna afrikaner che fornì informazioni per arrestare l’assassino e dalla tv di Stato che aprì i microfoni a Mandela. In quella terribile settimana, Botha, De Klerk e anche il capo di Stato Maggiore dell’esercito compresero che, per evitare la catastrofe, il potere doveva passare all’anc moderato di Mandela.
Madiba aveva al suo fianco un abile negoziatore. Cyril Ramaphosa si era fatto le ossa nel sindacato dei minatori. Fu lui a rivelare come Madiba superò l’ultima strettoia sul cammino che separava il Paese da una democrazia «sostenibile», vale a dire la diffidenza dei mercati finanziari. Il leader dell’anc si presentò al World Economic Forum di Davos nel 1992. Sebbene l’avessero consigliato di smorzare la retorica sulla statalizzazione, parlò di pianificazioni. Dissero che fu Bill Clinton a fargli cambiare idea; in realtà fu il primo ministro cinese Li Peng a suggerirgli che le nazionalizzazioni erano un errore.
Ramaphosa, classe 1952, divenne il candidato di Mandela alla successione, ma il partito si oppose e l’ex sindacalista si consolò trasformandosi in imprenditore di successo fino a scalare la classifica degli uomini più ricchi del Sudafrica. Tornato in politica con la carica di vicepresidente, alle elezioni del prossimo 7 maggio dovrà far dimenticare le oltre 700 denunce per corruzione che pendono sul capo del predecessore Jacob Zuma. La gente a La vicenda
● Nella lingua afrikaans «apartheid» significa «separazione». È il sistema di segregazione razziale applicato ufficialmente dal Partito Nazionalista sudafricano dal 1948 al 1994. Prevedeva l’esclusione della maggioranza nera dalla vita politica, mentre le leggi ne limitavano molti diritti
● La scarcerazione di Mandela nel 1990 fu il primo passo verso la fine dell’apartheid, con l’abolizione delle leggi discriminatorie fino alle prime elezioni a suffragio universale nel 1994 Johannesburg, a Città del Capo, a Pretoria dice che poteva andare peggio: Ramaphosa è ricco di suo e non dovrà rubare. In giro per il mondo, tale discorso si è già sentito diverse volte. Ma se beato è il Paese che non ha bisogno di eroi, ancor più beato è il Paese che non ha bisogno di essere amministrato da un miliardario.
Venne dunque il 27 aprile 1994 e portò le prime elezioni democratiche in Sudafrica. L’anc prese il 62,6% dei suffragi e il 2 maggio De Klerk ammise la sconfitta. Quella sera il partito festeggiò la fine di un incubo nella sala da ballo del Carlton Hotel, che è ancora lì, nel centro di Johannesburg, con i suoi cinquanta piani a contendersi la fama di edificio più alto d’africa. Madiba si era preparato, per il luogo, la conclusione del discorso: «Ora possiamo urlare, a gran voce dai tetti: finalmente liberi!».
Il 9 maggio lo acclamarono presidente del Sudafrica e, prima di raggiungere Pretoria, tornò al balcone davanti alla Grand Parade. Al suo fianco, oltre all’arcivescovo Tutu, anche l’aguzzino di un tempo, il «galantuomo» De Klerk. Il resto è storia di ordinaria corruzione, penetrata ovunque nell’organizzazione dello Stato man mano che ci si allontanava dalle lotte per le conquiste democratiche. Mandela non volle essere ricandidato e rimase a vegliare sull’anc fino alla sua morte (5 dicembre del 2013). Più volte tornò sull’argomento dando corpo alle sue paure: «Dopo la liberazione e l’insediamento di un governo democratico, gli antichi liberatori si spostano dalle foreste alle stanze del potere, e lì diventano intimi con i ricchi e i potenti».
Racconto al taxista che mi porta all’aeroporto di Johannesburg la mia disavventura di Pretoria. Lui non è convinto che i poliziotti fossero finti. Confessa: «Mi avessero raccontato, quand’ero ragazzo, il Sudafrica nel 2019, avrei fatto i salti di gioia; ma avrei dato un pugno sul naso a chi me l’avesse prospettato la sera in cui ballavo, nei giardini Pretoria, dietro alla bara di palissandro con il cadavere dell’apartheid».
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La gente dice che poteva andare peggio: almeno Ramaphosa è ricco di suo e non dovrà rubare