Valli, isole, colline. Non solo Trieste Microcosmi sotto la lente di Magris
Oggi in edicola con il quotidiano il terzo titolo con i testi del critico e romanziere triestino Un percorso geografico e interiore nei luoghi dove lo scrittore si è formato Alla ricerca delle piccole situazioni quotidiane che sanno raccontare la vita
L’intera narrazione è pervasa da una consapevolezza profonda per cui «viaggiare, come raccontare — come vivere — è tralasciare»
Adare il passo è il Caffè San Marco di Trieste dove, a un tavolo in fondo a destra, siede Giorgio Voghera, circondato da «miti cugine anch’esse scrittrici di qualità, vecchi amici che non chiedono nulla, aspiranti scrittori che si afferrano alla vecchia gloria letteraria, giornalisti che ripetono ogni due o tre mesi le stesse domande su Trieste, qualche studioso che arriva da lontano forse fiutando come per un prossimo banchetto di inediti». Lì Voghera, assicuratore, figlio del matematico Guido, figura di spicco della comunità ebraica, «tiene il registro» delle piaghe di cui «Dio continua a coprire Giobbe». È il Caffè San Marco, situato in ottima posizione «per chi vuole sgranchirsi le gambe e fare un piccolo giro del mondo», il primo dei Microcosmi di Claudio Magris, viaggi in spazi circoscritti, che arrivano dopo l’ampio fluire di Danubio e si concludono sempre a Trieste, nel Giardino Pubblico che «subito dopo l’ingresso, è già una foresta scura». Lì, tra i busti, c’è la statua di Joyce col cappello in testa e il pince-nez: «And Trieste, ah Trieste ate my liver» scrive in Finnegan’s Wake perché, dice Magris, Trieste «è anche una città che rode il fegato, come l’irlanda, un grembo edipico intollerabile e indimenticabile, che fa balenare promesse di felicità per deluderle subito e induce alla fissazione di parlarne continuamente male ma di parlarne continuamente».
Non è un caso che la figura di Giorgio Voghera (19081999), autore de Il segreto, pubblicato con la firma di
Anonimo triestino nel 1961, compaia in Microcosmi (libro del 1997 con cui Claudio Magris vinse lo Strega), e anche, pur senza essere nominato esplicitamente, nell’ultimo libro di Magris, Tempo curvo a Krems (Garzanti), dove, in uno dei cinque racconti che compongono la raccolta, ha le sembianze di uno spaesato scrittore invitato a un premio dove è costretto a pesare la propria estraneità ai riti della società letteraria.
I Microcosmi di Claudio Magris sono i luoghi da cui lo scrittore e la sua famiglia provengono, dove ha vissuto o trascorso le vacanze, dove si è formato, nella consapevolezza che «viaggiare, come raccontare — come vivere — è tralasciare. Un mero caso porta a una riva e perde un’altra». I borghi della Valcellina, vallata alpina «orrida e tenera» del Friuli-venezia Giulia (a Erto c’è Mauro Corona, al tempo solo «un grande scultore, forse non ancora del tutto consapevole di esserlo»); la laguna di Grado; i villaggi intorno al Monte Nevoso; i piccoli comuni della collina di Torino, città in cui lo scrittore ha studiato e insegnato; le isole croate di Cherso e Lussino; il villaggio di Antholz Mittertal, nella valle altoatesina di Anterselva: sono le tappe di questo viaggio su cui domina il mare con il suo respiro profondo, «grande blu nel quale i raggi del sole tremano e si flettono, lance che si spezzano nelle onde».
Un percorso geografico e interiore che popola i luoghi di personaggi noti (Umberto Saba, Italo Svevo, Scipio Slataper, con cui nasce la triestinità «che è insieme adolescenza, senilità e mancanza di sicura maturità», Vito Timmel, il «pittore nato a Vienna e venuto a completare la sua autodistruzione a Trieste», protagonista anche de La mostra, il maestro Biagio Marin, l’amico Stefano Jacomuzzi in cui convivevano «carità e disincanto, pietas errabonda e picaresca ironia»), ma anche di persone comuni, incontrate per caso e trafitte in un gesto, una ruga sul viso, uno sguardo.
Magris asseconda la sua passione per i destini marginali, irredenti rispetto alla «violenza» delle grandi narrazioni unificanti: un ritorno a sé stessi che è anche un tentativo di dilazionare l’irreversibilità del passare del tempo e che trova il suo culmine nella contemplazione estatica degli affreschi della chiesa del Sacro Cuore a Trieste, nel racconto finale «La volta».
C’è già tutto Magris in questo libro: lo scrittore delle grandi architetture romanzesche e quello delle piccole epifanie quotidiane, quando basta stare affacciati alla finestra (o al tavolino di un caffè) per raccontare la vita.