IL CORPO «DOPPIO»
Scenari La ricerca finalizzata a contrastare le patologie ora viene sfruttata anche per potenziare le prestazioni fisiche e cognitive. Una filosofa riflette sulle cause e gli effetti di questo strano intreccio TRA MALATTIA E WELLNESS C’È UN CONFINE FLUIDO
Il futuro della medicina è già iniziato: le terapie si avviano a essere sempre più personalizzate, legate al profilo genetico individuale e, per quanto riguarda il cancro, basate su immunoterapie mirate. Robot e intelligenze artificiali funzionano già da supporto nell’elaborazione dei dati a fini diagnostici e nella precisione di alcune procedure cliniche. L’evoluzione della medicina, grazie al trasferimento tecnologico dei risultati della ricerca scientifica, ha prodotto un cambiamento nel rapporto tradizionale di salute e malattia. Il filosofo Hans-georg Gadamer in un libro del 1993, Dove si nasconde la salute, partiva dalla constatazione che la salute non è né un’esperienza né un concetto autoevidente. La salute non si dà a vedere finché la malattia non s’impone a chi la vive e a chi la osserva (medici, familiari, caregivers) e, soprattutto, cambia il nostro rapporto con il mondo.
Un gran mal di denti mi impedisce di concentrarmi nella lettura del mio romanzo preferito: solo in quel momento
La prestazione Gli studenti impegnati in esami difficili ricorrono al Ritalin, usato nella sindrome di iperattività
mi accorgo che la capacità di leggere e l’esercizio della vista, direttamente legati a livello funzionale, dipendono anche da un’altra funzione corporea. Il mal di denti mi riporta al mio corpo vivo, alle risonanze tra corpo e mente che sono le radici del pensare e dell’agire. La salute di cui parla Gadamer (il titolo originale del libro era L’enigma della salute) è questione fondamentalmente di esperienza personale, che coinvolge la vita di una persona nella sua interezza, nelle sue relazioni con gli altri e nella capacità di adempiere attivamente i vari compiti della vita.
Che rapporto ha una concezione di questo tipo con l’enfasi contemporanea su wellness e fitness, intesi come livelli di efficienza fisica e mentale raggiungibili con un «lavoro» (in palestra), spesso aiutato da macchine, che comporta allenamento, sforzo e disciplina? Oggi è molto vivo il desiderio di «migliorare» le proprie performance, in particolare quelle cognitive. Si sfruttano così i risultati più recenti della ricerca sperimentale sul cervello, trovando nuove risorse in neurofarmaci che possono essere usati da individui sani per stimolare l’attenzione, la percezione, la memoria. Alcuni dei neurofarmaci oggi impiegati a scopo di «potendo. ziamento» (enhancement) cognitivo sono nati come terapia di alcune malattie (tipico è il caso del Ritalin, usato nella sindrome di iperattività o dei betabloccanti, somministrati nella cura dello stress post traumatico) e oggi vengono usati anche da soggetti sani. Gli studenti di università competitive, impegnati in esami difficili, usano il Ritalin, comprato senza ricetta, per digerire e memorizzare in poco tempo testi complessi. I betabloccanti vengono proposti per alleggerire il peso di ricordi negativi.
Il confine tra salute e malattia è diventato labile e fluiSi è visto che alcuni farmaci o comportamenti (diete, esercizi) possono curare il malato e «migliorare» le prestazioni di un sano.
Come si spiega questo strano intreccio? L’individuo nella sua singolarità è ormai al centro dell’attenzione, non solo come oggetto di cura ma anche come soggetto psicofisico, portatore di una storia sociale e culturale. Basta pensare al modo in cui le nuove frontiere della bioetica guardano al paziente, non più come un «corpo docile» (Foucault) nelle mani del medico, ma alla luce delle credenze religiose, dell’appartenenza etnica, della differenza sessuale, delle politiche della salute che lo rendono soggetto di scelte e decisioni autonome. Anche l’individuo sano è investito di nuove responsabilità, quella del corredo genetico che si trasmette in linea ereditaria, quella di scegliere o no di avere figli, di seguire programmi di prevenzione e stili di vita considerati salutari, di usare la propria intelligenza e cultura anche in funzione di un rapporto consapevole con il progresso medico e biotecnologico.
L’umano nelle sue espressioni fondamentali — libertà, responsabilità, differenze, relazioni — entra prepotentemente nell’esperienza della salute e in quella della malattia, per quanto diverse esse possano essere. Tanto più dunque viene da chiedersi se una medicina, che non si limita a curare i malati, ma può migliorarne la qualità della vita nel rispetto della loro individualità e insieme promette di «aumentare» le capacità dei sani, possa fondarsi solo sull’efficienza e sulle potenzialità di tecnologie sempre più sofisticate. L’immagine dell’umano è decisamente cambiata in seguito allo sviluppo delle neuroscienze, della biologia molecolare, della genetica e di altri settori della ricerca scientifica.
Certo, è una questione di informazione e di educazione, al fondo delle quali c’è il rilancio (e non l’annullamento) di una domanda: siamo ancora capaci di imparare dal dolore (Eschilo), dalla vulnerabilità nostra e altrui?
Il dubbio Una medicina basata solo sulla tecno-efficienza ci rende ancora capaci di imparare dal dolore?