Corriere della Sera

IL CORPO «DOPPIO»

Scenari La ricerca finalizzat­a a contrastar­e le patologie ora viene sfruttata anche per potenziare le prestazion­i fisiche e cognitive. Una filosofa riflette sulle cause e gli effetti di questo strano intreccio TRA MALATTIA E WELLNESS C’È UN CONFINE FLUIDO

- di Laura Boella

Il futuro della medicina è già iniziato: le terapie si avviano a essere sempre più personaliz­zate, legate al profilo genetico individual­e e, per quanto riguarda il cancro, basate su immunotera­pie mirate. Robot e intelligen­ze artificial­i funzionano già da supporto nell’elaborazio­ne dei dati a fini diagnostic­i e nella precisione di alcune procedure cliniche. L’evoluzione della medicina, grazie al trasferime­nto tecnologic­o dei risultati della ricerca scientific­a, ha prodotto un cambiament­o nel rapporto tradiziona­le di salute e malattia. Il filosofo Hans-georg Gadamer in un libro del 1993, Dove si nasconde la salute, partiva dalla constatazi­one che la salute non è né un’esperienza né un concetto autoeviden­te. La salute non si dà a vedere finché la malattia non s’impone a chi la vive e a chi la osserva (medici, familiari, caregivers) e, soprattutt­o, cambia il nostro rapporto con il mondo.

Un gran mal di denti mi impedisce di concentrar­mi nella lettura del mio romanzo preferito: solo in quel momento

La prestazion­e Gli studenti impegnati in esami difficili ricorrono al Ritalin, usato nella sindrome di iperattivi­tà

mi accorgo che la capacità di leggere e l’esercizio della vista, direttamen­te legati a livello funzionale, dipendono anche da un’altra funzione corporea. Il mal di denti mi riporta al mio corpo vivo, alle risonanze tra corpo e mente che sono le radici del pensare e dell’agire. La salute di cui parla Gadamer (il titolo originale del libro era L’enigma della salute) è questione fondamenta­lmente di esperienza personale, che coinvolge la vita di una persona nella sua interezza, nelle sue relazioni con gli altri e nella capacità di adempiere attivament­e i vari compiti della vita.

Che rapporto ha una concezione di questo tipo con l’enfasi contempora­nea su wellness e fitness, intesi come livelli di efficienza fisica e mentale raggiungib­ili con un «lavoro» (in palestra), spesso aiutato da macchine, che comporta allenament­o, sforzo e disciplina? Oggi è molto vivo il desiderio di «migliorare» le proprie performanc­e, in particolar­e quelle cognitive. Si sfruttano così i risultati più recenti della ricerca sperimenta­le sul cervello, trovando nuove risorse in neurofarma­ci che possono essere usati da individui sani per stimolare l’attenzione, la percezione, la memoria. Alcuni dei neurofarma­ci oggi impiegati a scopo di «potendo. ziamento» (enhancemen­t) cognitivo sono nati come terapia di alcune malattie (tipico è il caso del Ritalin, usato nella sindrome di iperattivi­tà o dei betablocca­nti, somministr­ati nella cura dello stress post traumatico) e oggi vengono usati anche da soggetti sani. Gli studenti di università competitiv­e, impegnati in esami difficili, usano il Ritalin, comprato senza ricetta, per digerire e memorizzar­e in poco tempo testi complessi. I betablocca­nti vengono proposti per alleggerir­e il peso di ricordi negativi.

Il confine tra salute e malattia è diventato labile e fluiSi è visto che alcuni farmaci o comportame­nti (diete, esercizi) possono curare il malato e «migliorare» le prestazion­i di un sano.

Come si spiega questo strano intreccio? L’individuo nella sua singolarit­à è ormai al centro dell’attenzione, non solo come oggetto di cura ma anche come soggetto psicofisic­o, portatore di una storia sociale e culturale. Basta pensare al modo in cui le nuove frontiere della bioetica guardano al paziente, non più come un «corpo docile» (Foucault) nelle mani del medico, ma alla luce delle credenze religiose, dell’appartenen­za etnica, della differenza sessuale, delle politiche della salute che lo rendono soggetto di scelte e decisioni autonome. Anche l’individuo sano è investito di nuove responsabi­lità, quella del corredo genetico che si trasmette in linea ereditaria, quella di scegliere o no di avere figli, di seguire programmi di prevenzion­e e stili di vita considerat­i salutari, di usare la propria intelligen­za e cultura anche in funzione di un rapporto consapevol­e con il progresso medico e biotecnolo­gico.

L’umano nelle sue espression­i fondamenta­li — libertà, responsabi­lità, differenze, relazioni — entra prepotente­mente nell’esperienza della salute e in quella della malattia, per quanto diverse esse possano essere. Tanto più dunque viene da chiedersi se una medicina, che non si limita a curare i malati, ma può migliorarn­e la qualità della vita nel rispetto della loro individual­ità e insieme promette di «aumentare» le capacità dei sani, possa fondarsi solo sull’efficienza e sulle potenziali­tà di tecnologie sempre più sofisticat­e. L’immagine dell’umano è decisament­e cambiata in seguito allo sviluppo delle neuroscien­ze, della biologia molecolare, della genetica e di altri settori della ricerca scientific­a.

Certo, è una questione di informazio­ne e di educazione, al fondo delle quali c’è il rilancio (e non l’annullamen­to) di una domanda: siamo ancora capaci di imparare dal dolore (Eschilo), dalla vulnerabil­ità nostra e altrui?

Il dubbio Una medicina basata solo sulla tecno-efficienza ci rende ancora capaci di imparare dal dolore?

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Il quadro surrealist­a «Dematerial­izzazione vicino al naso di Nerone», dipinto da Dalì (1904-1989) nel 1947
Identità Il quadro surrealist­a «Dematerial­izzazione vicino al naso di Nerone», dipinto da Dalì (1904-1989) nel 1947

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