Slovenia, ti ricordi della ex Jugoslavia?
A LUBIANA C’È UN QUARTIERE CHE «PARLA» DEI BALCANI SPORT, RAP, TALENTO «MA SIAMO TUTTI SLOVENI!»
Nel 1991 finì in modo drammatico, con l’invasione e il ritiro dei tank mandati da Milosevic. Ma si evitò il destino della Croazia o della Bosnia. Viaggio in un Paese con poca nostalgia. Dove la capitale è l’unica città «green» dell’est, ci si muove in bici. E anche l’europa, da quel passato, ha qualcosa da imparare
La Jugoslavia finì con una partita di basket. Per Jure Zdovc e non solo. Si giocava a Roma, era il 27 giugno 1991. «Mi chiamarono dal mio club, l’olimpija di Lubiana, mancavano 2-3 ore alla semifinale degli Europei. Mi dissero: sarebbe bello se non scendessi in campo». La Jugoslavia aveva appena invaso la Slovenia. «Fu una decisione difficile, la presi da solo. E non me ne sono mai pentito». Jure Zdovc — che non giocò mai più per la Jugoslavia — era il playmaker, dettava i tempi alla generazione dei fenomeni in quella squadra che aveva tutto per diventare eterna: giovinezza, talento, vittorie e anche, anni dopo, la morte a 28 anni, schiacciato in una Fiat rossa da un Tir su un’autostrada tedesca, del più forte di tutti, Dražen Petrovic. «Non sono un nazionalista — racconta oggi a Stožice, nell’arena con le luci spente, dove allena l’olimpija —. Ma uno sloveno consapevole e fiero sì. Se attaccano il tuo Paese, che vai a fare in campo?». Partì il giorno dopo, in macchina, verso casa, «dopo aver fatto i complimenti ai compagni che avevano vinto la finale contro l’italia, i rapporti rimasero super». Lo aspettavano una figlia di 5 mesi, un matrimonio da spostare (per «la guerra», ma «la vera guerra, capimmo dopo, fu un’altra»), il viaggio di 6-7 ore, una nuova capitale. «Ero orgoglioso di quel che noi sloveni avevamo fatto». Roma, Trieste, l’ex cortina di ferro, la strada che gira tra monti bassi verso Lubiana: a percorrerlo 28 anni dopo il tragitto che fece Zdovc, su un’autostrada liscia e irriconoscibile, pensi che qualcuno deve aver nascosto nei boschi i cartelli «Welcome to Switzerland». Dove sono finite le tracce della Jugoslavia?
Rap a Fužine
Per cercarle bisogna cominciare da Fužine, due chilometri dai tre ponti al centro di Lubiana. Può sembrare uguale a tutti i quartieri in cemento armato, replicati in scala gigante fin da Minsk e che il Moma celebra — solo posta in riva della Ljubljanica, accanto al castello dove il predicatore Primoz Trubar stampò i primi libri sloveni — ma non lo è. «L’estate a Fužine / sentila nelle mie»... Zlatko qui è il re: non solo perché è il più famoso rapper sloveno. Arriva con Jure Brankovic (che ha appena rifiutato, due ore prima, il posto da portavoce di un ministro), e Ognjen Backovic, ex capitano della nazionale di pallamano. Tutti cresciuti qui, e come tanti — tranne Jure — di famiglie miste, emigrate negli anni ’70 e ’80, quando la Slovenia importava lavoratori dalla Jugoslavia. È stato il rap di Zlatko, e poi il libro efurji raus! di Goran Vojnovi, il più importante scrittore under 40, (nato qui), a far di Fužine un luogo anche letterario. Gli efurji («raus», fuori!) di Vojnovi sarebbero loro, o i loro amici: «i terroni», la «feccia del sud» — con le loro storie di campetti di basket, birre, delinquenza, discriminazione subita e amicizia — di cui nessuno aveva parlato. Un Bronx, invaso dalle droghe, dal quale stare alla larga «qui trovi la neve anche d’estate / puoi tirare palle di neve», con una sua lingua fatta di dialetti jugo e invenzioni, e forse il talento per metro quadrato più alto della Repubblica (qui era di casa anche il portiere dell’inter, Samir Handanovic). «Il filo rosso della nostra infanzia era la noia: ci inventavamo di tutto per fregarla — dice Backovic —. Si passava le giornate sui campetti. Solo se vincevi, restavi in campo».
La guerra dei Balcani, negli anni Novanta, si presentò alla porta nella forma dei nonni, scappati dalla Bosnia con le valigie. «Vivevamo tutti — racconta Zlatko — in 37 metri quadrati». Però, ripetono, tensioni interetniche a Fužine non ce n’erano, semmai di guerra si parlava tra le mura di casa. E voi che vi sentite? «Ma chiaro, noi siamo sloveni!». Sono uniti da un’amicizia fortissima (Branko: «Mia moglie mi dice, quando ci troviamo: ma smettetela con questa vostra Fužine, ve la raccontate come foste dei vecchi partigiani»). A vedere oggi i bambini di 7-8 anni che spingono i monopattini sul pump-track, vien da chiedersi: che racconti fantasmagorici di avventure e bugie potranno inventare? E infatti una canzone di Zlatko si intitola: «Ni ve tko», non è più così.
Ljubljana o Copenaghen?
Lubiana, due km più in là, sembra una città nel mezzo di una nuova metamorfosi. Ora assomiglia a Copenaghen, la terza trasformazione in 30 anni: dopo l’era dello smog marroncino jugoslavo, quella della capitale prealpina con le facciate pastello-barocche restaurate 20 anni fa, ora potrebbe trovarsi da qualche parte in Scandinavia. Copenaghen? «Quando sono diventato sindaco 12 anni fa — dice Zoran Jankovic, nel municipio a Mestni Trg — e mi hanno chiesto a chi mi ispirassi, avevo risposto: a Vienna per l’ordine, a Barcellona per lo stile di vita. Modesto, no?». Lubiana, con questo sindaco (nato in Serbia), ex manager che apriva supermercati in Jugoslavia, ammiratore di Merkel e Putin, ha una serie di primati. Prima capitale verde in Europa dell’est («ne sono orgogliosissimo»), un sistema di raccolta rifiuti che vengono a studiare dal Giappone, marciapiedi a filo dell’asfalto, bici ovunque, più centraline per auto elettriche di Milano. «Una città così pulita in Italia non c’è». I locali del municipio affittati a una associazione LGBT. «Siamo aperti, lo mostriamo». Se c’è un nuovo urbanesimo colto e rilassato, una moda
L’estate di Fužine /sentila nelle mie rime / da zero alla cima / discriminati dalla nascita / ma ho sopportato anche questo / non sono il primo / ma neanche l’ultimo
Il filo rosso della nostra infanzia era la noia: ci inventavamo di tutto per fregarla. Si passava le giornate sui campetti. Solo se vincevi, restavi in campo. E imparavi a importi
Crescere a Fužine era un’esperienza unica, che ripeterei volentieri. Era un ambiente che aveva le sue trappole e ti insegna molte cose, soprattutto le regole di sopravvivenza
La mia visione per Lubiana? Un mix di Vienna per la pulizia e di Barcellona per lo stile di vita. Sono modesto, vero? Zoran Jankovic , sindaco di Lubiana
Se il tessuto connettivo di un’unione si allenta, non c’è più modo di stare insieme. A meno di non trovare un nuovo, grande obiettivo Milan Kucan, primo presidente sloveno
planetaria che lega le città, allora Lubiana ne fa parte a pieno titolo. E con il nazionalismo, come la mettiamo? Jankovic ammette che c’è, lo «spingono i partiti di destra, è una merce che si vende con facilità ovunque». Quanto alla Jugoslavia — che sia finita così, dice «è stata una tragedia», una carneficina «per colpa di quei due pazzi», che neppure vuole nominare. Franjo Tudjman, croato, e Slobodan Milosevic, serbo.
Un posto in prima fila
Milan Kucan, il presidente dell’indipendenza, e Janez Janša, a 30 anni ministro della Difesa e poi leader della destra, se non si odiano, si detestano. Di quel tempo in cui furono protagonisti assoluti, «unico, indimenticabile per chiunque l’abbia vissuto» — la dichiarazione d’indipendenza, i tank jugoslavi in strada, i 40 morti in dieci giorni e il ritiro jugoslavo — Janša rivendica l’organizzazione militare dei teritorialci, la legalità, la pianificazione («ci preparammo per 16 mesi»). Kucan, comunista come Milosevic, mentre mostra nel suo ufficio le foto dell’epoca in bianco e nero, l’inevitabilità della scelta, i negoziati con Belgrado. «Sapevamo di avere un mese di tempo: la Jugoslavia schierò i soldati di leva, di stanza in Slovenia, in un mese avrebbe mandato le truppe regolari. Occorreva trovare un accordo in fretta se volevamo salvarci». Vinsero. Janša, oggi l’alleato più netto di Orbán nel Ppe, ai comunisti non ha perdonato, si irrigidisce, ancora parla del genocidio (16 mila belogardisti furono uccisi e gettati nelle fosse nel 1945), della negazione dei crimini. Kucan è nella posizione unica di chi ha contribuito alla dissoluzione di un’unione — ed è affascinato, o tormentato, dai paragoni con il presente. «La Jugoslavia fu tenuta insieme da sei elementi: la lotta al fascismo, il socialismo, la lega comunista, l’esercito jugoslavo, il principio della fratellanza, il mercato comune». Tutto andò in crisi. Parla dell’europa? «Se il tessuto connettivo si allenta, non si sta più insieme. A meno di non trovare un obiettivo grande, esterno». C’è un altro dettaglio. «I serbi insistevano: siete jugoslavi. Invece ognuno capiva, e sapeva, di essere prima sloveno, e poi anche jugoslavo».
Ricordi
Di quell’epoca si parla poco. Zdenka Badovinac, direttrice dei musei di arte contemporanea — che sta preparando una mostra al Maxxi sugli eroi in Jugoslavia — racconta che solo ora le collaborazioni tra musei nei Balcani stanno riprendendo. Slavoj Žižek, il filosofo superstar sloveno risponde così a una mail. «In principio, certo, possiamo incontrarci. Ma come la mettiamo col fatto che su questi temi non ho assolutamente NULLA da dire?». Poi apre la porta di casa: e dopo tre ore di lezione su globalizzazione, amore, Alida Valli, Dubai e contro la correttezza politica («si capisce sempre dal contesto, se una cosa è offensiva o no») comincia a inanellare una serie di barzellette jugo: «Ci dicevamo di tutto nelle barzellette, sloveni risparmiatori, bosniaci fannulloni ecc., ma era liberatorio farlo. Sa da cosa si vede che c’è razzismo? Le barzellette non si raccontano più».
I ricordi, impossibile sfuggirci. E se fosse tutto qui? Se la Jugoslavia altro non fosse che una cesura generazionale? Gli under 30 non sanno cosa sia, per gli altri, più si avanza con l’età, più riaffiora. Nei ricordi dei cestisti («Nel basket è tutto un revival di film jugo», dice Zdovc), nelle barzellette di Žižek. Manca un ricordo comune, perché un Paese di 2 milioni di abitanti — che ha avuto la sua «guerra civile» 70 anni fa — per paradosso, non è riuscito a elaborare un unico racconto nazionale. Ha preferito, riuscendoci benissimo, soprassedere.
Ritorno a Fužine
A Fužine, l’ultimo appuntamento è con il ballerino di hip-hop Dario Segovi. Arriva con il monopattino elettrico, in tuta blu e sneaker arancioni. In attesa, nel baretto in legno Hit tennis, tra pensionati venuti 40 anni fa da tutto il Sud che bevono Laško pivo alle 11, dove l’ex metalmeccanico Dragane («Dragane, macedone, non Dragan, serbo!») accende una sigaretta a un amico di 87 anni, spunta sopra i gelati un calendario. È Tito, quello? «Certo che lo è». Come un reperto da museo. Parafrasando Kusturica, sjecas li se Tita, Dragane, ti ricordi di Tito? Ma il presente arriva con Dario sul monopattino. Lubiana è uno scooter elettrico.