Corriere della Sera

I capolavori? Si capiscono in tram

Giotto e i tattoo, gli impression­isti e lo smartphone: nel saggio del critico (Solferino) una passeggiat­a di 24 ore in città diventa riflession­e sull’estetica

- Di Jessica Chia

Carlo Vanoni: «L’arte è come il calcio: per essere compresa va frequentat­a»

«Certe cose non le capisco»: potrebbe essere una frase detta davanti alla radiografi­a di un dentista o a un’azione calcistica, pronunciat­a da chi non mastica questo sport. O, più spesso, è facile sentirla davanti a un’opera d’arte contempora­nea, come un taglio di Fontana o l’orinatoio di Duchamp. È vero, certe cose non si capiscono perché l’arte — come «il calcio, la politica, la musica sinfonica» — deve essere «frequentat­a».

Nel suo volume A piedi nudi nell’arte (Solferino) Carlo Vanoni invita il lettore a «frequentar­e» l’arte, in particolar­e quella contempora­nea. Gli basta una passeggiat­a di 24 ore in città per attraversa­re secoli di immagini, colori, idee, simboli. Partendo dal presuppost­o che tutta l’arte è contempora­nea, perché sempre coeva alla sua epoca, lo storico dell’arte ne ripercorre le rivoluzion­i e i significat­i.

Per esempio, il tatuaggio a forma di stella di una commessa riporta alla memoria del protagonis­ta Tonsure (1919), una foto in cui Man Ray si fa ritrarre con una stella rasata sulla nuca: uno dei primi esempi di Body Art. La riflession­e sul corpo chiama in causa Giotto e la sua rappresent­azione di spazio, corpo e sentimento (dopo l’immobilism­o bizantino è il primo a introdurre emozioni e tridimensi­onalità). La Body Art estremizza questa rivoluzion­e

con la carne viva dell’artista, «che si assume la responsabi­lità dell’azione, fino a mettere in gioco il proprio corpo». Nel 1974 Gina Pane (19391990) si taglia le braccia con spine e lamette e lo stesso anno Marina Abramovic nella performanc­e Rythm 0 si lascia martoriare dagli spettatori: è il supplizio, al centro di tutta l’iconografi­a cristiana. E se prima il dolore passava attraverso i Cristi in croce di Guido Reni o Mantegna, oggi si esprime nel corpo vivo, tagliato, tatuato. Questa è bellezza? Forse no. Ma «l’arte, come la vita, non è fatta solo di bellezza, ma anche di drammi, di ferite profonde (...), l’arte parla della vita perché a farla sono gli artisti, esseri umani».

Anche il modo di guardare a un corpo è cambiato. Davanti a un nudo di Amedeo Modigliani in mostra, il protagonis­ta rimane rapito dalla pelle «viva, calda» che invita al desiderio. I modelli di Modigliani altro non sono che le evoluzioni della Venere di Botticelli (1482 circa), pudica, innocente, elegante, e della Galatea di Raffaello (1512), che «sfila in un tripudio di corpi», sensuale e disinibita. Le donne sono entrambe nude, ma cambia il linguaggio, che è «motore dell’arte». Nel 1863 Édouard Manet dipinge la Colazione sull’erba: al centro una donna non più nuda, ma svestita: sta nascendo l’arte moderna. Gli impression­isti parlano una nuova lingua — sono i primi a scattare foto con lo smartphone anziché con il rullino, pensa il protagonis­ta uscendo da un negozio di telefonia — non cercano più la perfezione tecnica, ma l’immediatez­za e la freschezza della realtà. Per gli accademici benpensant­i la pittura «contempora­nea» stava morendo. La storia si ripete.

Lo stesso cambio di paradigma avviene con l’arte contempora­nea; questa nasce quando la pittura «da matrioska madre, diventa matrioska seme»: le immagini del mondo nel Novecento vengono diffuse da mezzi più potenti: la television­e, la fotografia, il cinema. L’arte deve ripensarsi; con Kandinskij la pittura diventa forma e colore senza soggetto, per la prima volta rappresent­a sé stessa. Il colore prende voce: il nero di Malevic sostituisc­e l’arte sacra, il blu di Yves Klein s’impone come nota unica, «piena di vita», i tagli di Fontana superano «la superficie di un’epoca in cui le immagini viaggiano nello spazio». Si oltrepassa­no i confini di muro e tele.

Su un tram, il protagonis­ta osserva la luce, le teste delle persone, affiancate come bottiglie. Pensa a Giorgio Morandi: le sue pennellate di luce, come preghiere, sono un tributo a tutta la pittura che lo ha preceduto, perché questa «non sa di essere astratta o figurativa, ma è». Questo è il nuovo atteggiame­nto dei contempora­nei. E su quel tram, metafora del ’900, il mondo cambia velocement­e a ogni fermata, mentre nel suo angolo se ne sta Morandi, silenzioso osservator­e di luce.

Forse è l’essersi allontanat­a dalla bellezza per riflettere il suo linguaggio ad aver allontanat­o l’arte dalla gente. Eppure di vita parla, ne fa parte e la rappresent­a, anche quando la vita non c’è più. Come l’opera del cubano Félix González-torres (1957-1996), un’installazi­one di lampadine accese in ricordo del suo compagno scomparso. Le lampadine non sono che questo: «nostalgia di una luce che si è spenta». E lì c’è tutto il nostro universo: l’amore, la perdita, la fragilità dell’uomo, la caducità della vita. E forse qualcosa in più; c’è l’arte, quella che a volte è «risposta alle nostre domande».

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 ??  ?? Immagini Da sinistra: Amedeo Modigliani (1884 – 1920), Nudo sdraiato (1917-18); Giorgio Morandi (1890-1964), Natura morta, 1957. A fianco: Félix Gonzálezto­rres (19571996), Untitled (Lovers – Paris), 1993, esposto a Vienna nel 2018
Immagini Da sinistra: Amedeo Modigliani (1884 – 1920), Nudo sdraiato (1917-18); Giorgio Morandi (1890-1964), Natura morta, 1957. A fianco: Félix Gonzálezto­rres (19571996), Untitled (Lovers – Paris), 1993, esposto a Vienna nel 2018

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