Il lusso responsabile non è più un’utopia
Karaosman: «Merito soprattutto dei giovani»
Dieci anni fa ha inizio la sfida: trasformare in green il red carpet. Ai Golden Globes una serie di creazioni di alta moda realizzate con materiali ecosostenibili indossate da star hollywoodiane sfilano sul primo Green Carpet Challenge. Nel 2009 la denominazione non era stata scelta a caso. Si lanciava una sfida, un grido d’allarme. Glamour e fascino con giudizio. Nell’arco di due lustri le cose sono andate avanti. La consapevolezza di un universo moda sinonimo di approccio etico all’abito è cresciuta. «La moda non è solo prodotto. L’abito. A monte: produzione e materiali. Su questi bisogna investire». Lo spiega Hakan Karaosman, docente al Politecnico di Milano con il corso di Luxury Fashion Management. Ma il lusso può essere responsabile? «Le mie ricerche vertono a quello. Comprendere i meccanismi e trasmetterli alle nuove generazioni. Far capire come un prodotto di lusso possa essere totalmente ecosostenibile».
Il docente di origine turca non lo spiega solo dalla sua cattedra milanese. Lo ha fatto anche creando i contenuti interattivi con i quali si apre la mostra ospitata al Museo Ferragamo, cuore di Sustainable Thinking, progetto espositivo fiorentino in più sedi. A firma di Karaosman il progetto multimediale,
un macro monitor touch screen che accoglie i visitatori del Museo. Come un essenziale vocabolario enciclopedico con dati e numeri per comprendere i complessi rapporti tra ambiente, sostenibilità e creatività. Il docente non è nuovo a questo tipo di progetti: nel 2018 è tra gli artefici di un altro progetto, State of fashion: Searching for the new luxury, proposto ad Arnhem nei Paesi Bassi. Del resto il Green Carpet Award milanese (il premio giunto alla seconda edizione, la serata di gala ospitata al Teatro alla Scala), ha dimostrato l’importanza e la presa di coscienza non solo da parte degli stilisti, ma anche del consumatore dei cambiamenti in atto.
In particolare da parte delle nuove generazioni. «Sono molto attente. Non sono interessate solo ai prodotti e stop. Ma ciò che sta a monte. Come viene creato un abito, i materiali scelti. L’impatto con l’ambiente. Consapevoli di ciò che acquistano, di ciò che indossano. Non bisogna mai dimenticare che un abito diventa come la tua seconda pelle nel momento in cui lo indossi. Devi sapere di cosa è fatto, come è stato realizzato».
Senza poi prescindere dal lato creativo. Basti pensare al lavoro fatto da un’antesignana come Stella Mccartney. Del resto riciclare conchiglie e compact disc per trasformarli in ricami per abiti da sera (così ha fatto Tiziano Guardini, vincitore del primo Green Carpet Award); ma anche le reti da pesca o il «pastazzo», le bucce degli agrumi residuo della spremitura trasformati in filati (da i Cote e dalle Orange Fiber, creative siciliane già ideatrici con Ferragamo di una capsule collection eco). O ancora la pelle di mela in alternativa al cuoio (Matea Benedetti) sono oggi paragonabili a lavorazioni di una contemporanea alta moda. Perché uniche. Ma l’ecosostenibilità ha un segreto per essere la filosofia vincente del futuro? «Trasparenza. Nella produzione e uso dei materiali. Lo spartiacque per far sì che la moda eco sia sinonimo di moda a tutto tondo».
Del resto con rafia intrecciata per una tomaia e sughero per una suola a zeppa, può nascere un sandalo capace di segnare il corso del made in Italy. Era la fine degli anni 30. L’idea era venuta a Salvatore Ferragamo.
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In alto, «Rombaut Piñatex Cowboy Sneakers», di Mats Rombaut; sopra, Bottletop, borsa da viaggio in alluminio e pellame (courtesy Bottletop). A destra, Lucy + Jorge Orta, «Life Guard – Amazonia»
Il docente
«Trasparenza nell’uso e nella produzione dei materiali: è il segreto di questa filosofia»