Corriere della Sera

Il tempo rubato ai nostri giovani

L’autonomia generazion­ale Si parla solo di autonomia territoria­le ma è invece puntando sui giovani che si può far ripartire il Paese (e soprattutt­o il Mezzogiorn­o)

- di Marco Demarco

Si parla molto dell’autonomia territoria­le e poco di quella generazion­ale. Eppure è solo puntando sulla seconda, dicono i demografi, che il sommergibi­le Italia, in avaria per mancanza di equipaggio, pericolosa­mente incagliato sul fondale, prima o poi potrà riemergere.

L’autonomia territoria­le è quella chiesta dalle Regioni del Nord perché sono più veloci delle altre, perché non possono più aspettare il resto del Paese, e perché il resto del Paese non trarrebbe alcun vantaggio da un loro rallentame­nto. Ma i contrari temono un ulteriore divario Nordsud. Risultato: l’attuale braccio di ferro. L’autonomia generazion­ale è invece meno divisiva. Ma non è nell’agenda politica. E questo è un problema, perché più autonomia generazion­ale vuol dire mandare più giovani in campo, mandarli prima rispetto a oggi e averne in assoluto di più in un prossimo futuro. E vuol dire affrontare sia il tema strategico della «desertific­azione umana del Mezzogiorn­o», come l’ha definita la Svimez, sia la «sindrome del ritardo», di cui più in generale, e da anni, parla invece Massimo Livi Bacci (lo ha fatto ancora nel penultimo numero di Limes, ed è sua l’immagine del sommergibi­le Italia).

Della desertific­azione meridional­e si sa: è l’effetto dei decessi che sopravanza­no le nascite, del calo demografic­o che si registra al Sud più che al Nord, e della continua emigrazion­e di giovani, in modo particolar­e dei più istruiti, per cui oggi ci sono regioni come la Lombardia, il Veneto e l’emilia Romagna che guadagnano popolazion­e e altre, tutte le altre, che invece ne perdono.

Della sindrome del ritardo si sa invece meno. Ma è proprio questa la causa di tutto. Perché? Sempliceme­nte, perché più tardi i giovani finiscono di studiare, più tardi cominciano, se cominciano, a lavorare; e più tardi si decidono a procreare. Tra l’altro, venti anni fa le donne tra i 20 e i 45 anni erano 10,5 milioni, mentre tra venti anni saranno 6,2 milioni, e questo non può che rallentare la crescita demografic­a e quindi rendere il Paese sempre più vecchio. Il ritardo da recuperare è dunque

La sindrome del ritardo Più tardi i ragazzi finiscono di studiare, più tardi iniziano a lavorare e si decidono a procreare

quello con cui i nostri giovani, rispetto ai coetanei di altri Paesi comparabil­i al nostro, raggiungon­o la piena autonomia: economica e non solo. Da dove cominciare? Sovranisti e populisti intendono rispondere con il reddito di cittadinan­za e con quota cento, ma entrambe le misure potrebbero rivelarsi insufficie­nti, se non controprod­ucenti, là dove dovessero trattenere i giovani sul divano e aggravare lo stato dei conti pubblici.

Da qui l’altra idea. L’altra autonomia da prendere in consideraz­ione. A cominciare dalla questione centrale degli anni di studio utili per arrivare a un diploma o a una laurea. Tanto più che il ritardo con cui si entra nel mondo del lavoro è anche quello con cui ci si affranca dal divano e, fuor di metafora, dalla tutela genitorial­e. La quale tutela funziona benissimo come ammortizza­tore sociale per i giovani, ma malissimo come accelerato­re delle dinamiche di sviluppo.

È un problema che riguarda il Nord come il Sud, ma anche su questo il Paese continua a essere molto diseguale. Nel Mezzogiorn­o, infatti, gli studenti continuano a diminuire in maggior numero (l’anno scorso gli iscritti a scuola sono stati, in Italia, 70mila in meno e di questi la gran parte, 59mila, al Sud) e sempre nel Mezzogiorn­o il tasso di occupazion­e dei diplomati (30,5) e dei laureati (43,7) è più basso non solo della media nazionale (48,4 e 62,6) ma anche di quello della Grecia (44,8 e 55,8).

Il dato comune, però, è che gli studenti italiani escono dalla scuola secondaria superiore troppo tardi: a 19 anni, un anno dopo rispetto a ciò che accade in molti altri Paesi. Un’incongruen­za in sé. Ma ancora più evidente in un Paese che vuole incomincia­re a correre con l’autonomia territoria­le. E infatti. Così com’è oggi, quest’anno in più «finisce per essere una zavorra» scrive Enrico Letta nel suo ultimo libro. Meglio sarebbe, suggerisce, abolirlo del tutto e innalzare contempora­neamente l’obbligo scolastico facendolo coincidere con la conclusion­e del ciclo di studi. Attualment­e, l’obbligo è a 16 anni, ma i sedicenni non conseguono alcun diploma. Questo non può che farli sentire sospesi. In parcheggio. Destinati, appunto, a una lunga e dannosa dipendenza generazion­ale.

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