Tenace e sola, non era la Thatcher
Come la Lady di Ferro si è arenata sul nodo europeo Figlia di un vicario, determinata e perfino cocciuta, è finita nel vicolo cieco dei negoziati con la Ue Lascia dopo 3 anni e numerosi inciampi, mentre il partito (e il Paese) non si riconoscono più
C’è stata un’era Thatcher, ma non ci sarà mai un’era May: il suo sarà ricordato solo come uno sfortunato interregno, una delle premiership più brevi del dopoguerra. Ad accomunarla alla Lady di Ferro la nemesi che le ha disfatte entrambe, la questione europea: ma se la prima è comunque assurta agli onori della Storia, la seconda non è mai riuscita a districarsi dai sussulti della cronaca.
Non era destino che andasse così: ma una serie di circostanze politiche inevitabili e di difetti personali hanno congiurato in modo da condurre al fallimento. Il passaggio di Theresa May a Downing Street è stato segnato da un unico fattore, la Brexit. A lei era stato affidato il compito di portarla a termine in maniera ordinata: e non ci è riuscita.
Un po’ il difetto era all’origine: la May al referendum del 2016 si era schierata per restare in Europa, anche se in maniera estremamente tiepida. Ed era stata catapultata a Downing Street perché i fautori della Brexit, Boris Johnson e Michael Gove, si erano pugnalati a vicenda: lei era stata vista, in quanto ministro dell’interno, come una figura affidabile in grado di realizzare l’impresa senza troppe scosse.
Dunque è stata chiamata a fare qualcosa in cui non credeva veramente: e ha affrontato il compito come un esercizio di limitazione dei danni più che come una opportunità da cogliere. Ma, soprattutto, ha evitato di dire con chiarezza quale fosse la posta in
gioco e ha cercato di tenere buona in ogni modo l’ala euroscettica del partito conservatore. Il risultato è stato un pasticciato compromesso con l’europa che non ha soddisfatto nessuno: ma il suo carattere caparbio fino alla cocciutaggine le ha impedito di riconoscerne i limiti e di cambiare rotta.
Eppure, nella sua prima fase di governo Theresa May aveva suscitato molte speranze. Da ministro dell’interno si era dimostrata donna di polso e appena insediata a Downing Street aveva promesso di costruire «un Paese che funzioni per tutti»: aveva cioè inteso che il voto per la Brexit era stato un grido di protesta e di rivolta dei «left behind», quelli lasciati indietro dalla globalizzazione. Dunque occorreva impegnarsi in un’opera di ricostruzione della nazione, di ricucitura delle divisioni; qualcuno ci aveva visto l’embrione di una nuova filosofia, il «Maysmo», che ripudiava gli eccessi del liberismo thatcheriano e riscopriva una visione sociale del conservatorismo.
Ma se questo «Maysmo» si è mai affacciato al mondo, è morto in culla: soffocato dalla Brexit. Della quale la May ha fornito inizialmente una interpretazione estrema: e cioè fine del mercato unico, della libera circolazione, della giurisdizione europea. Una versione «hard» pensata per compiacere gli istinti del suo partito conservatore, ma che avrebbe inevitabilmente finito per scontrarsi con la realtà.
L’errore fatale la May lo commise nella primavera del 2017, quando decise di andare alle elezioni anticipate con l’obiettivo di ottenere una super-maggioranza che le consentisse di imporre la sua visione: ma gli elettori punirono la sua hubrys e la lasciarono azzoppata, priva del sostegno necessario a Westminster.
Ma un errore ancora più grave fu quello di lanciare il processo della Brexit, nel marzo del 2017, senza avere le idee chiare sulla meta da raggiungere: a quel punto l’europa aveva tutte le carte in mano e il negoziato successivo si tradusse in una serie di rese incondizionate di Londra ai diktat di Bruxelles. Una leggerezza che la Thatcher non avrebbe mai commesso.
E così, di ritirata in ritirata, la May è finita ostaggio della destra euroscettica del suo partito, che non voleva saperne di quelle che vedeva come delle capitolazioni. Per questo, per tre volte, il Parlamento ha respinto l’accordo negoziato con l’europa. E ormai non erano più rimaste altre strade.
Alla May va riconosciuta la tenacia, il carattere dimostrato nelle avversità, che le è valso il rispetto di tutti: il retaggio della figlia del vicario di campagna uscita da una grammar school (come la Thatcher). Ma alla fine è stata vittima di se stessa e dei suoi limiti innati: lascia un Paese senza una prospettiva certa e un partito conservatore allo sbando. Non c’è molto da rivendicare per la posterità.
Una donna di coraggio. Nessuna gioia per le sue dimissioni. Con chi prenderà il suo posto lavoreremo con lo stesso rispetto Jean-claude Juncker Presidente Commissione Europea
Mi dispiace molto per Theresa. L’apprezzo moltissimo. È solida, ha lavorato duramente. La vedrò nelle prossime settimane Donald Trump presidente Usa