PERCHÉ L’INDIA DI MODI NON RINUNCERÀ ALL’ITALIA
Economia e politica Dopo i marò, la normalizzazione dei rapporti è ormai compiuta ed è comune interesse rilanciarli: il Paese asiatico è un interlocutore fondamentale
Quello che colpisce delle elezioni indiane non è tanto che si siano svolte per oltre un mese con lo spostamento per migliaia di chilometri di un vasto apparato di scrutatori, forze di sicurezza e apparecchiature varie, quanto che in un simile processo non vi siano mai state manipolazioni o fughe strumentali di notizie. L’esito viene comunicato tutto insieme dopo la conclusione dell’ultima tornata, con un esercizio di trasparenza che dovrebbe far riflettere democrazie più mature.
Narendra Modi si è confermato alla guida del Paese, smentendo talune previsioni e sfruttando la debolezza delle opposizioni. Rahul Gandhi resta lontano dal raccogliere l’eredità di sua madre Sonia; il coinvolgimento della sorella Pryianka (vero asso nella manica nascosto della famiglia) e il rinnovamento generazionale del Congresso potranno cambiare col tempo le cose. I partiti regionali hanno mantenuto la loro influenza negli Stati dove contavano, ma per loro l’ora di un ruolo nazionale dovrà attendere. Inflazione, inefficienze e lungaggini non hanno cancellato l’appoggio delle borghesie urbane, dei giovani e delle caste «alte» al partito Bjp, mentre nelle zone rurali l’«effetto Modi» ha funzionato nonostante una crisi che le misure
annunciate dal governo non sono riuscite a contrastare davvero.
Il forte richiamo identitario è stato la chiave con cui Modi ha sfruttato abilmente la reazione a un attacco terroristico in Kashmir per esasperare il confronto col Pakistan; l’esaltazione nazionalista che ne è seguita ha contributo non poco a far passare in secondo piano agli occhi dell’opinione pubblica i nodi dell’economia e a consolidare la sua presa elettorale. I toni veementi — assai più che nelle
Certezze Piacciono il nostro lusso e il design, settori nei quali siamo dominanti, ma questo non basta
precedenti elezioni del 2014 — usati nei confronti della minoranza islamica hanno attirato l’attenzione preoccupata di molti osservatori; per certi versi non stupisce che Modi, la cui appartenenza all’organizzazione estremista Rss egli non ha mai negato, abbia deciso di spingere con più forza sullo zoccolo duro della sua base in una campagna che sembrava più incerta.
Nel 2014, tuttavia, una volta al governo, non aveva tardato a prendere le distanze calcolando con opportunismo intelligente che il suo successo sarebbe dipeso dalla capacità di presentarsi come un riformatore pragmatiperché co ed efficace, promotore di uno sviluppo che con l’intolleranza non poteva convivere. Mantenere una linea di moderazione resta essenziale al completamento del suo programma, che dovrebbe fare dell’india una potenza globale a tutto tondo: resta da vedere se in lui vincerà ancora una volta il pragmatismo, o se il successo farà prevalere i suoi demoni, o quelli dei suoi seguaci. L’india è il terzo Paese islamico al mondo per popolazione, il calderone dell’intolleranza etnico-religiosa è pericoloso
I piani di investimento indiani in alcuni campi offrono la possibilità di recuperare posizioni
da maneggiare per chiunque e Modi è personaggio troppo scaltro ed ambizioso per mettere a repentaglio un potere che dipende dalla sua credibilità internazionale: il dubbio è legittimo e una risposta certa difficile, ma è possibile immaginare che l’india del «Modi 2» sarà un Paese più difficile per le minoranze e si avvicinerà alla linea rossa dell’intolleranza, senza però travalicarla.
Era fondato il timore che la vicenda dei nostri marò tornasse all’attenzione. Così non è stato, vuoi perché Modi ha ritenuto più importante evitare inutili complicazioni nelle percezioni degli investitori internazionali, vuoi l’eclissi del clan Gandhi rendeva superata la carta «italiana». La normalizzazione dei rapporti è ormai compiuta ed è gran tempo di pensare a come rilanciarli: l’india è un interlocutore fondamentale per un Paese esportatore come l’italia, che in Asia non può vivere di sola Cina. Ne siamo stati partner importanti nelle prime fasi del suo sviluppo e, ora che essa cresce a ritmi superiori al 6 per cento, facciamo fatica a tenere il passo. Piacciono il nostro lusso e il design, ove siamo dominanti, ma non basta: i piani di investimento giganteschi in settori dove non mancano le nostre eccellenze — dalle grandi infrastrutture ferroviarie e stradali, alla meccanica, ai trasporti, alla chimica e all’agroalimentare, sino all’elettronica e allo spazio — offrono la possibilità di recuperare posizioni.
La nostra immagine è quella di un Paese simpatico, dalla qualità della vita alta ma da non prendere troppo sul serio; gli indiani si chiedono come mai, nonostante una storia antica che ha molti punti di contatto comuni, l’italia di oggi si sia relegata in una sostanziale irrilevanza politica. Sappiamo poco l’uno dell’altro e c’è un serio lavoro da fare per superare stereotipi e gap di percezioni radicate da ambo le parti; rinunciarvi con un Paese i cui padri fondatori studiavano Mazzini, dove la parola Fiat evoca ancor oggi l’idea di qualità e dove il ventilatore si chiamava «Marelli», sarebbe non solo un errore, ma un inutile autolesionismo.