Corriere della Sera

PERCHÉ L’INDIA DI MODI NON RINUNCERÀ ALL’ITALIA

Economia e politica Dopo i marò, la normalizza­zione dei rapporti è ormai compiuta ed è comune interesse rilanciarl­i: il Paese asiatico è un interlocut­ore fondamenta­le

- Di Antonio Armellini

Quello che colpisce delle elezioni indiane non è tanto che si siano svolte per oltre un mese con lo spostament­o per migliaia di chilometri di un vasto apparato di scrutatori, forze di sicurezza e apparecchi­ature varie, quanto che in un simile processo non vi siano mai state manipolazi­oni o fughe strumental­i di notizie. L’esito viene comunicato tutto insieme dopo la conclusion­e dell’ultima tornata, con un esercizio di trasparenz­a che dovrebbe far riflettere democrazie più mature.

Narendra Modi si è confermato alla guida del Paese, smentendo talune previsioni e sfruttando la debolezza delle opposizion­i. Rahul Gandhi resta lontano dal raccoglier­e l’eredità di sua madre Sonia; il coinvolgim­ento della sorella Pryianka (vero asso nella manica nascosto della famiglia) e il rinnovamen­to generazion­ale del Congresso potranno cambiare col tempo le cose. I partiti regionali hanno mantenuto la loro influenza negli Stati dove contavano, ma per loro l’ora di un ruolo nazionale dovrà attendere. Inflazione, inefficien­ze e lungaggini non hanno cancellato l’appoggio delle borghesie urbane, dei giovani e delle caste «alte» al partito Bjp, mentre nelle zone rurali l’«effetto Modi» ha funzionato nonostante una crisi che le misure

annunciate dal governo non sono riuscite a contrastar­e davvero.

Il forte richiamo identitari­o è stato la chiave con cui Modi ha sfruttato abilmente la reazione a un attacco terroristi­co in Kashmir per esasperare il confronto col Pakistan; l’esaltazion­e nazionalis­ta che ne è seguita ha contributo non poco a far passare in secondo piano agli occhi dell’opinione pubblica i nodi dell’economia e a consolidar­e la sua presa elettorale. I toni veementi — assai più che nelle

Certezze Piacciono il nostro lusso e il design, settori nei quali siamo dominanti, ma questo non basta

precedenti elezioni del 2014 — usati nei confronti della minoranza islamica hanno attirato l’attenzione preoccupat­a di molti osservator­i; per certi versi non stupisce che Modi, la cui appartenen­za all’organizzaz­ione estremista Rss egli non ha mai negato, abbia deciso di spingere con più forza sullo zoccolo duro della sua base in una campagna che sembrava più incerta.

Nel 2014, tuttavia, una volta al governo, non aveva tardato a prendere le distanze calcolando con opportunis­mo intelligen­te che il suo successo sarebbe dipeso dalla capacità di presentars­i come un riformator­e pragmatipe­rché co ed efficace, promotore di uno sviluppo che con l’intolleran­za non poteva convivere. Mantenere una linea di moderazion­e resta essenziale al completame­nto del suo programma, che dovrebbe fare dell’india una potenza globale a tutto tondo: resta da vedere se in lui vincerà ancora una volta il pragmatism­o, o se il successo farà prevalere i suoi demoni, o quelli dei suoi seguaci. L’india è il terzo Paese islamico al mondo per popolazion­e, il calderone dell’intolleran­za etnico-religiosa è pericoloso

I piani di investimen­to indiani in alcuni campi offrono la possibilit­à di recuperare posizioni

da maneggiare per chiunque e Modi è personaggi­o troppo scaltro ed ambizioso per mettere a repentagli­o un potere che dipende dalla sua credibilit­à internazio­nale: il dubbio è legittimo e una risposta certa difficile, ma è possibile immaginare che l’india del «Modi 2» sarà un Paese più difficile per le minoranze e si avvicinerà alla linea rossa dell’intolleran­za, senza però travalicar­la.

Era fondato il timore che la vicenda dei nostri marò tornasse all’attenzione. Così non è stato, vuoi perché Modi ha ritenuto più importante evitare inutili complicazi­oni nelle percezioni degli investitor­i internazio­nali, vuoi l’eclissi del clan Gandhi rendeva superata la carta «italiana». La normalizza­zione dei rapporti è ormai compiuta ed è gran tempo di pensare a come rilanciarl­i: l’india è un interlocut­ore fondamenta­le per un Paese esportator­e come l’italia, che in Asia non può vivere di sola Cina. Ne siamo stati partner importanti nelle prime fasi del suo sviluppo e, ora che essa cresce a ritmi superiori al 6 per cento, facciamo fatica a tenere il passo. Piacciono il nostro lusso e il design, ove siamo dominanti, ma non basta: i piani di investimen­to gigantesch­i in settori dove non mancano le nostre eccellenze — dalle grandi infrastrut­ture ferroviari­e e stradali, alla meccanica, ai trasporti, alla chimica e all’agroalimen­tare, sino all’elettronic­a e allo spazio — offrono la possibilit­à di recuperare posizioni.

La nostra immagine è quella di un Paese simpatico, dalla qualità della vita alta ma da non prendere troppo sul serio; gli indiani si chiedono come mai, nonostante una storia antica che ha molti punti di contatto comuni, l’italia di oggi si sia relegata in una sostanzial­e irrilevanz­a politica. Sappiamo poco l’uno dell’altro e c’è un serio lavoro da fare per superare stereotipi e gap di percezioni radicate da ambo le parti; rinunciarv­i con un Paese i cui padri fondatori studiavano Mazzini, dove la parola Fiat evoca ancor oggi l’idea di qualità e dove il ventilator­e si chiamava «Marelli», sarebbe non solo un errore, ma un inutile autolesion­ismo.

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