Duello Pechino-usa, scivolone del renminbi Il mondo ha paura
Un salto di qualità nella guerra commerciale tra Stati Uniti e Cina. Ieri, il renminbi ha «pò qi», «forzato il sette»: per la prima volta dal 2008, il governo di Pechino ha permesso che la valuta si deprezzasse rispetto al dollaro sopra la quota psicologica — e politicamente rilevante — di sette renminbi per un biglietto verde. Non era imprevedibile. «Manipolazione valutaria», ha accusato Donald Trump su Twitter.
La settimana scorsa, il presidente americano ha annunciato l’imposizione di tariffe del 10%, da settembre, su 300 miliardi di dollari di importazioni dalla Cina, la quantità che non era stata già colpita da tariffe del 25%. Le autorità cinesi non hanno la possibilità di rivalersi imponendo a loro volta contro-tariffe in pari misura: non ci sono abbastanza merci americane che entrano nel Paese. La reazione, dunque, è quella di fare immaginare una «militarizzazione del renminbi», cioè un uso della svalutazione della moneta sia per rendere più concorrenziali le merci sia per segnalare che Pechino ha intenzione di difendere la propria economia con più strumenti. Il passaggio da una guerra commerciale fatta di dazi e tariffe a una in cui entrano i tassi di cambio rischia di svilupparsi in una pericolosa guerra valutaria. La banca centrale cinese ha commentato che lo scivolone del renminbi di quasi il 2%, a 7,1087, «è dovuto agli effetti delle misure unilaterali e di protezione commerciale e dalle aspettative di tariffe contro la Cina». Sui mercati, però non ci si aspetta un deprezzamento repentino dello yuan: Pechino non ha mai amato utilizzarlo come arma di pressione, per timore che ciò provochi fughe di capitali verso altre valute; preferirà probabilmente una svalutazione moderata e controllata. Non è però scontato che ciò sia possibile: gli effetti che vanno al di là del contenzioso tra Pechino e Washington già ci sono. Ieri, le valute di Corea del Sud, India e Indonesia hanno risentito della mossa cinese. L’economista di Commerzbank Hao Zhou ha detto al Financial Times di prevedere altre svalutazioni in Asia e movimenti sui mercati globali: «Sembra che uno tsunami sia in arrivo».