L’ORGOGLIOSA ANIMA RUSSA DI SOLŽENITSYN
Ritorno in patria (Marsilio)
«Mi inchino a questa terra di Kolyma nella quale sono sepolti centinaia di migliaia, se non milioni, di nostri compatrioti ingiustamente condannati». Sono queste le prime parole che Aleksandr Solženitsyn pronuncia al momento del ritorno in Russia dopo un esilio durato vent’anni. Dette nel cuore di quell’arcipelago repressivo e carcerario — il Gulag — di cui era stato il primo grande cantore e testimone, attività che l’aveva costretto nel 1974 all’esilio in Occidente, queste parole assumevano l’invito a non dimenticare «quei milioni di vittime», ma anche le radici di una storia che vedeva ancora, nel 1994, segnata dalla rovina.
I testi di Solženitsyn raccolti, tradotti e curati come meglio non sarebbe stato possibile da Sergio Rapetti nel volume Ritorno in Russia (Marsilio, pagine 234, 22), ci raccontano un aspetto di questo grandissimo e controverso personaggio (mai troppo amato, e forse neppure troppo compreso, in Italia) che si conosceva poco e di cui si erano avuti echi superficiali nelle cronache di quegli anni. I discorsi che Solženitsyn pronuncia nel corso del viaggio che compie per due mesi lungo la ferrovia Transiberiana, toccando decine di città grandi e piccole prima di giungere a Mosca, già rivelano gli aspetti più singolari e fecondi di una riflessione — sulla Russia e la sua storia, sul suo presente, sulla sua cultura — che avrebbe coinvolto lo scrittore negli ultimi 14 anni della sua vita. Dalle critiche puntuali e ai nostri occhi eccessive che muove a Gorbaciov a Novosibirsk alle riflessioni sulla libertà, alla constatazione della mancanza di democrazia e della faticosa uscita dal comunismo, questi interventi riassumono la voce di una presenza critica e autorevole anche quando non convince o sembra lontana dal dibattito presente. Ma è proprio la misura apparentemente fuori del tempo (meglio, della cronaca) delle sue considerazioni a costituire l’interesse che i suoi scritti ancora suscitano in chi li legge. Perché li si connette, facilmente e inevitabilmente, con la sua attività di «grande» scrittore, intrisa di cultura, di stile, di ispirazione, ma anche di vita vissuta nel mezzo di un dramma collettivo tra i più potenti del XX secolo, quello del totalitarismo comunista.
Il sentito e commosso ricordo del ritorno in Russia del figlio Ermolaj — che aveva tre anni al momento dell’esilio — è posto come introduzione al volume, con note curiose su un viaggio che era stato scelto dallo scrittore per riprendere un contatto profondo e intenso tanto con la sua terra quanto con la sua attività letteraria. Nella sua riassuntiva ed efficace postfazione Rapetti ripercorre gli aspetti centrali della figura letteraria di Solženitsyn, il ruolo svolto dalla pubblicazione di Una giornata di Ivan Denisovic nel 1962 (e la consegna che Anna Achmatova gli fa, nel dicembre di quell’anno, del suo Requiem perché lo ricopi e lo diffonda), la polemica che accompagna il tentativo di pubblicare Arcipelago Gulag (uscito a Parigi nel 1974), offrendoci un breve e intenso saggio su uno degli scrittori più importanti e controversi del XX secolo.