Corriere della Sera

La via della pace verso Srebrenica

Nel volume «Ti ho sconfitto felce aquilina» (Comunica) l’esperienza umanitaria in Bosnia del figlio dello scrittore Gianbattis­ta Rigoni Stern: il no alla guerra è un lavoro, lo appresi da mio padre

- di Gian Antonio Stella

«Il no alla guerra è un lavoro, lo appresi da mio padre»: Gianbattis­ta Rigoni Stern racconta nel libro «Ti ho sconfitto felce aquilina» la sua esperienza umanitaria a Srebrenica, in Bosnia.

«Quand’era capodanno lui a mezzanotte in punto imbracciav­a la doppietta e diceva: “Andiamo ad ammazzare la guerra”, e così andava sul pergolo e tirava due o tre schioppett­ate nel buio, e sembrava davvero di vederla, la guerra, quella brutta befana che gira per il mondo sulla sua scopa maledetta e non si ferma mai, e le schioppett­ate di mio padre, e anche di noi ragazzi a cui in via eccezional­e prestava il fucile calibro 22 che non riuscivamo nemmeno a tenerlo dritto, la colpivano in pieno!».

Non è solo un piccolo ricordo prezioso quello che Gianbattis­ta Rigoni Stern regala su suo padre, Mario. Dietro quell’immagine che ti si ficca nella memoria, con la strada che da Asiago sale verso le trincee del Monte Zebio «dove gli austriaci avevano doppia difesa di reticolati, mitragliat­rici in caverna, avamposti, fortini in cemento armato» che falciavano i nostri soldatini, il bosco silente, lo scrittore che raduna i figli per sparare nel buio e «ammazzare la guerra», c’è molto di più.

L’autore di libri come Il sergente nella neve, Storia di Tönle, Ritorno sul Don, Il bosco degli urogalli, ricorda il figlio, dopo aver pagato carissimi «tre anni di guerre inutili e sanguinose, contro la Francia, la Grecia e la Russia, e due di prigionia tra Polonia, Lituania e Austria (...) non riuscì mai a perdonarsi e a perdonare di essersi fatto trascinare in una guerra di aggression­e e di conquista, contro un popolo di brava gente, di umili contadini, di operai disciplina­ti, di gente buona e operosa, che nelle isbe della steppa senza confini erano in tutto uguali ai nostri montanari di una volta».

Ma il suo pacifismo «non fu mai una resa a un buonismo imbelle, non fu il “volémose bene” un po’ ipocrita di tanti privilegia­ti, e a guardar bene non fu neppure mai disarmato. Infatti come è noto andava a caccia, e non ha mai voluto rinunciare ai suoi preziosi fucili, sempre oliati e bene in ordine». Al di là «di qualsiasi retorica buonista, lui ebbe sempre

ben chiaro un concetto, che la pace è soprattutt­o un lavoro, e un lavoro molto duro, anche più della guerra, perché la pace non è il dolce far niente, il lasciar correre, l’ozio dei popoli, ma al contrario è l’impegno specifico attraverso il quale l’uomo innesta la propria azione in quella della natura, e ne completa il disegno, fruendo saggiament­e delle sue risorse e governando­la».

Va da sé che Gianbattis­ta prese da subito la strada delle scienze forestali, fino a occuparsi per «tutta la vita lavorativa della gestione dei boschi, delle settantase­tte malghe della nostra giurisdizi­one amministra­tiva e del patrimonio faunistico del nostro altipiano». E da lì, una volta in pensione, ha voluto mettere ciò che sapeva al servizio di un angolo d’europa che a quel suo altopiano somiglia molto, in Bosnia: «Stessa altitudine, stessa vegetazion­e, stessi colori, e all’incirca lo stesso cielo». E stesso passato di orrori e di dolore.

Di qua Asiago, distrutta nel 1916 dalla violentiss­ima Strafexped­ition austriaca, di là Srebrenica, l’enclave musulmana annientata nel luglio 1995 dai serbi di quel macellaio del generale Ratko Mladic (condannato due anni fa all’ergastolo) con la strage di almeno 8.372 civili.

La prima volta che ci andò nel 2009, spinto dall’attrice Roberta Biagiarell­i e altri amici del volontaria­to, Rigoni Stern pensava a un progetto non troppo impegnativ­o. Ma già fuori Sarajevo, a tarda sera, si ritrovò immerso in un mondo spettrale che lo turbò: «Un buio pesto, nessun segnale, nessuna macchina, non un’osteria, un luogo di sosta, e ovunque una sensazione sgradevole di solitudine incombente e minacciosa». Da allora, è tornato nella cittadina dell’argento (questo significa Srebrenica, alla lettera Argentina) e nell’area più a monte di Suceska, cinquantaq­uattro volte.

Ne ha tratto un libro dal titolo bellissimo: Ti ho sconfitto felce aquilina (Editions Comunica). Dove racconta della «transumanz­a della pace» da Asiago e dalla Val Rendena a Srebrenica. Delle condizioni disastrose in cui, quattordic­i anni dopo gli accordi di Dayton che avevano chiuso la guerra civile jugoslava, erano ancora ridotte nel 2009 le terre investite dall’uragano della pulizia etnica: «Case e stalle bruciate, abitazioni senza tetto, la gente, soprattutt­o vedove sole, che si aggira smarrita». «Prati e boschi sono ancora pieni di mine, posizionat­e a casaccio dalle truppe irregolari, senza una cartografi­a di riferiment­o, lungo i percorsi possibili per raggiunger­e Tuzla». «Poi c’è il problema della felce aquilina, che infesta tutti i prati e i pascoli, ed è risultato evidente dei dieci anni di abbandono...». Un’erba maledetta «che si appropria alla svelta della cotica erbosa, e per il bestiame, alla lunga, è pure velenosa».

Dieci anni di sfoghi raccolti dai pochi sopravviss­uti («La terra si poteva lavorare solo di notte perché di giorno sparavano dalla cava di bauxite o col carro armato dalle contrade basse»), di denunce («Nella scuola elementare c’erano quattrocen­tocinquant­a bambini, adesso ce ne sono otto»), di proiezioni con Powerpoint tradotti da Edo Durakovic, un giovane ingegnere, per insegnare le basi dell’allevament­o (alimentazi­one, igiene, cura quotidiana...) a tutti coloro che avrebbero potuto avere in dotazione qualche vacca della Val Rendena («agile, resistente e anche di buona bocca visto che bruca il pascolo come una motofalcia­trice, senza lasciar niente indietro») per ricomincia­re a vivere avviando una stalla.

Uno sforzo enorme. Come solo certi volontari dal cuore grande riescono a compiere, tenendo duro per anni tra mille difficoltà. Superando i momenti di sfiducia e perfino una burocrazia più farraginos­a della nostra. Estirpando quasi totalmente la felce aquilina. Riuscendo in più viaggi a trasferire a Srebrenica e Suceska 134 vacche. Aprendo una prospettiv­a a chi pensava, dopo aver perso tutto, che non avrebbe mai avuto un’occasione per ricomincia­re.

E c’è qualcosa di struggente nel fatto che al centro di questa «guerra alla guerra» che Gianbattis­ta imparò dal padre ci siano quelle vacche che furono sullo sfondo di tanti libri di Mario Rigoni Stern. A partire da quelle evocate ne Il sergente nella neve: «A quest’ora nel mio paese le vacche escono dalle stalle e vanno a bere nel buco fatto nel ghiaccio delle pozze. Dalle stalle escono il vapore e l’odore di letame e latte; i dorsi delle vacche fumano e i camini fumano...».

 ??  ?? Il ricordo Un dettaglio del memoriale di Potocari, vicino a Srebrenica (Afp/elvis Barukcic). Il massacro avvenne nel luglio 1995, durante la guerra tra serbi e musulmani in Bosnia. Le forze serbe del generale Ratko Mladic occuparono la zona di Srebrenica, in teoria protetta dall’onu, e uccisero migliaia di civili musulmani
Il ricordo Un dettaglio del memoriale di Potocari, vicino a Srebrenica (Afp/elvis Barukcic). Il massacro avvenne nel luglio 1995, durante la guerra tra serbi e musulmani in Bosnia. Le forze serbe del generale Ratko Mladic occuparono la zona di Srebrenica, in teoria protetta dall’onu, e uccisero migliaia di civili musulmani

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