IL ROMPICAPO AFGHANO TRA STRAGI ISIS, TALEBANI E I RISCHI DEL RITIRO USA
Per chi vuole compiere una strage (e a Kabul questa genia non è poi tanto rara) i matrimoni in stile afghano sono occasioni da non perdere. Se i genitori degli sposi possono permetterselo gli invitati sono centinaia, uomini e donne sono separati nelle loro «zone» e formano così bersagli indipendenti, la confusione provocata dal kamikaze di turno facilita la fuga di eventuali complici. Purtroppo non stupisce, allora, che le vittime dell’attacco di sabato siano state 63, e i feriti 180. Con due particolarità: il massacro non è stato rivendicato dai Talebani bensì dai locali adepti dell’isis; e ad essere colpiti dai terroristi sunniti, non per la prima volta, sono stati membri della minoranza Hazara di fede sciita. Due elementi che aiutano a capire quanto arduo sia il negoziato tra americani e talebani che dovrebbe portare entro la fine del 2020 al ritiro di tutte le forze straniere, compresi beninteso gli italiani. In particolare il Pentagono teme che dopo un ritiro statunitense molti talebani possano sentirsi «traditi» dai negoziatori e vadano così ad ingrossare le fila dello «Stato islamico del Khorasan» (etichetta locale dell’isis) creando così le premesse di una nuova guerra civile. La soluzione potrebbe essere per gli americani di conservare qualche base in Afghanistan e di continuare a svolgere operazioni antiterrorismo contro i nuovi nemici (l’isis) dei nuovi alleati ed ex nemici (i Talebani). Ma l’equazione, che peraltro è stata respinta dai talebani, non tiene in alcun conto l’attuale governo di Kabul, per non parlare della popolazione civile che nello scorso mese di luglio ha subìto le perdite più alte degli ultimi due anni. Donald Trump ha confermato ieri ai suoi più stretti collaboratori che vuole ritirare le sue forze prima delle elezioni del novembre 2020. Ha aggiunto soltanto due parole: «se possibile».
© RIPRODUZIONE RISERVATA