Corriere della Sera

E Salvini rilancia: dobbiamo studiare

Sul palco la gara mediatica tra i leader. Ma è ancora tutto da costruire

- di Francesco Verderami

Ècambiato il capo ma il popolo è lo stesso di tredici anni fa, quando per la prima volta il centrodest­ra riempì la piazza «rossa» di San Giovanni: oggi come allora si è presentato in modo festoso e famigliare, oggi come allora ha i numeri per puntare alla riconquist­a del governo. Solo che oggi rispetto ad allora non ha ancora un programma di governo.

Perché le parole d’ordine pronunciat­e ieri dai tre leader del centrodest­ra non erano che una rivisitazi­one degli slogan berlusconi­ani con cui venticinqu­e anni fa venne annunciata la «rivoluzion­e liberale». Nell’attesa del «nuovo miracolo italiano», Salvini Meloni e Berlusconi hanno riproposto infatti le formule del «meno tasse» e «più sicurezza». Hanno cavalcato l’algoritmo mediatico dei «porti chiusi», dietro il quale si tenta di nascondere un anno di gestione fallimenta­re nella politica dei rimpatri. E hanno persino scomodato «Dio patria e famiglia» per difendere l’identità nazionale.

È vero, si trattava di una manifestaz­ione di piazza, non di una riunione programmat­ica. E la manifestaz­ione è riuscita, con un melting pot di bandiere sotto il palco e una sfida sopra il palco, con due generazion­i di politici a confronto, con il Cavaliere che non si accorgeva di essere distante dal microfono e Meloni invece lesta a trovare un rimedio per non assoggetta­rsi al ruolo di ospite: «Ma quando me freghi», ha sussurrato pensando a Salvini, mentre guadagnava il podio e oscurava con un tricolore il logo della Lega. E giusto per fare un ultimo regalo al padrone di casa, è andata lunga con il suo intervento, tanto che Salvini si è irritato quando lo hanno invitato a «stringere» perché la gente stava lasciando la piazza per andare alla stazione.

Tutti comunque hanno sfruttato l’occasione per lanciare un messaggio. Berlusconi si è scagliato contro gli eterni «comunisti». Meloni ha regolato i conti con gli avversari ma anche con gli alleati, ai quali ha chiesto un «patto anti-inciucio con Pd e M5S», come a sottolinea­re che è l’unica monda dal peccato originale. Salvini ha attaccato «il governo di Gianni e Pinotto», che fino ad agosto erano stati suoi sodali.

Ma che nel centrodest­ra esista il problema di strutturar­e un progetto di governo, lo ha ammesso lo stesso leader della Lega: il tempo che manca «per tornare a palazzo Chigi dalla porta principale — ha detto — ci dovrà servire per studiare, incontrare e valutare». E ogni verbo si porta appresso una serie di interrogat­ivi: sui rapporti europei, le relazioni internazio­nali, la politica economica, quella industrial­e. Insomma, sull’idea di Paese. Perché non basta un’intervista per accreditar­e un nuovo corso, se dal palco il professor Bagnai — che nel Carroccio chiamano ironicamen­te «il nostro premio Nobel» — sostiene che la Brexit «è una scelta di libertà», mentre

l’europa è «una prigione» e l’euro «non è irreversib­ile».

Salvini sa qual è il problema, che poi è lo stesso con cui Berlusconi dovette fare i conti nel ‘94, prima di aderire al Ppe. Non a caso Giorgetti ha lanciato di recente il sasso in quella direzione. «Il politicame­nte corretto vede nel sovranismo un pericolo per la democrazia», ha scritto in un articolo pubblicato da Civiltà delle Macchine: «E se fosse invece l’ultimo disperato tentativo di difenderla?». È un primo passo verso una conversion­e politica della Lega che consentire­bbe a Salvini di rendere spendibile la leadership e il consenso di cui dispone. E trasformar­li così in premiershi­p.

Ma i messaggi lanciati ieri dai governator­i riflettono ancora l’incompiute­zza del momento. Un conto è stato infatti il discorso del presidente del Friuli-venezia Giulia Fedriga, che ha sciorinato un rosario di delitti commessi sul suo territorio da extra comunitari. Altra cosa il pragmatism­o di Fontana e Zaia, che in Lombardia e Veneto hanno dato prova di collaborar­e con amministra­tori di centrosini­stra per conquistar­e un’olimpiade osteggiata dal governo di cui la Lega faceva parte.

Per «tornare a Palazzo Chigi dalla porta principale», a Salvini tornerà certo utile la reunion con Berlusconi e Meloni, un ritorno al passato di cui diceva di non sentire «nostalgia». Ma non basterebbe. E ieri ha fatto capire di aver capito: perché le scorciatoi­e rischiano di essere vicoli ciechi.

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Silvio Berlusconi, 83 anni, Giorgia Meloni, 42, e Matteo Salvini, 46, in piazza San Giovanni a Roma

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