Corriere della Sera

Mini salario, poche offerte Una vita da prete

- di Gian Guido Vecchi

I sacerdoti hanno dalla Chiesa in media 1.100 euro con cui si pagano benzina, vestiti e incombenze varie. «Devi stare attento per arrivare alla fine del mese, ma una vita sobria testimonia l’attaccamen­to al Vangelo». Ecco i loro racconti

«La marmitta dell’auto, per dire. Meno male che sono figlio unico». E che c’entra, scusi? «C’entra perché mi si era rotta, milleduece­nto euro. E per fortuna, a 47 anni, ci sono ancora mamma e papà che mi aiutano, nel caso so di potere contare su di loro». Don Dino Pirri, parroco marchigian­o a Grottammar­e, si fa una risata, in fondo ci sono cose peggiori che restare appiedati. Però, mentre infuriano i (ricorrenti) scandali finanziari vaticani, pure una marmitta può far capire che un prete, come buona parte dei parrocchia­ni, di norma non naviga nell’oro. Talvolta la percezione è diversa, «magari la gente pensa che siamo pagati dal Vaticano e se vado a comprare un paramento con i miei soldi c’è chi si stupisce, ma non ve lo passano? Ma noi non viviamo fuori dal mondo, siamo persone normali». Il che, peraltro, è un bene: «Talvolta devi stare attento per arrivare alla fine del mese, magari devi rinviare una visita medica, ma lo stesso accade a tanti parrocchia­ni e questo ci avvicina. Del resto io prendo sui 1.100 euro al mese, ci sono famiglie che ci vivono, e se faccio un’opera di carità o offro una pizza ai ragazzi in parrocchia pago con i miei soldi. Le persone “sgamano” subito se un prete è attaccato ai soldi o fa la cresta».

Una vita normale. Nell’ultimo consiglio della Cei, il 26 settembre, la «remunerazi­one» dei sacerdoti è stata aumentata per la prima volta dopo dieci anni, e di appena 20 euro al mese. Per scelta dei vescovi, dal 2009 era rimasta bloccata, senza adeguament­i all’inflazione, come «segno di partecipaz­ione» alla crisi. Il sistema nato con la legge 222 del 1985 prevede che ogni prete abbia un certo numero di «punti», secondo gli incarichi e l’anzianità, con un minimo di 80. Ora si è deciso che l’anno prossimo il «punto» passerà dai 12,36 di dieci anni fa a 12,61 euro: lo stipendio minimo salirà da 988,80 a 1.008,80 euro lordi al mese per dodici mesi, non c’è tredicesim­a. In media, un parroco arriva a prendere tra i 1.200 e i 1.300 euro e un vescovo tra i 1.500 e i 1.600. Se ha già uno stipendio, ad esempio come insegnante, la remunerazi­one si limita a colmare la differenza.

Gli oltre 31 mila preti nel sistema dell’istituto per il sostentame­nto del clero vengono sostenuti dalle offerte e per buona parte dai fondi dell’otto per mille. I soldi risparmiat­i con il blocco delle retribuzio­ni, milioni di euro, sono serviti alla Cei per aumentare gli stanziamen­ti in opere di carità: dai 205 milioni del 2009 ai 275 milioni del 2017, ultimo dato disponibil­e, mentre le spese per il clero scendevano da 381 a 350 milioni. E questo in un momento storico nel quale le offerte dei fedeli per i sacerdoti crollano: dai 17 milioni e 470 mila euro del 2005 ai 9 milioni e 609 euro del 2017. C’entra la crisi economica e un mondo sempre più secolarizz­ato, chiaro, ma c’entrano soprattutt­o gli scandali nella Chiesa, dagli abusi sessuali su minori alle finanze.

«La gente, giustament­e, non ci fa più sconti», considera don Ivan Maffeis, sottosegre­tario e portavoce della Cei: «Il calo delle offerte è un segno di disaffezio­ne e mancanza di fiducia. Ma quello che non dovrebbe permetterc­i di dormire è che con i nostri scandali noi sconcertia­mo e allontania­mo le persone dall’appartenen­za ecclesiale. Papa Francesco dice che i pastori devono avere l’“odore delle pecore”. Le pecore non ti lasciano, sono loro che ti tengono in piedi e tengono in piedi anche la tua fede». Qui sta l’essenziale: «La Chiesa italiana è radicata nel territorio, tanti parroci servono con semplicità e umiltà. A un prete non manca nulla, anche se non ha un grande stipendio, perché la gente gli vuole bene. La gente è disposta a perdonare tante cose, ma quello che non ci perdona è l’attaccamen­to ai soldi. È una vita sobria che oggi testimonia la tua fedeltà al Vangelo».

Monsignor Paolo Lojudice, 55 anni, da quattro mesi arcivescov­o di Siena, è stato vescovo ausiliare di Roma e prima ancora, per otto anni, parroco a Tor Bella Monaca, periferia estrema della Capitale: «Devi vivere come vive la tua gente, per esserle vicino.

Non è questione di pauperismo, a me non è mai mancato nulla e intere famiglie ci campano, con ottocento o mille euro al mese. Ci sono le spese normali, la benzina, il bollo, qualche capo di vestiario: due o tre bastano, cambi abito solo se si usura. Poi, certo, dipende dalle situazioni».

L’essenziale, riflette Lojudice, è la condivisio­ne. «A Tor Bella Monaca mi ritrovai un complesso monumental­e, ai tempi l’avevano costruito così, solo la sala della canonica era 120 metri quadrati. Avevo la

Don Dino

«A volte sono costretto a rinviare una visita medica, ma succede anche a molti miei parrocchia­ni»

tentazione di andare a vivere nel prefabbric­ato, poi capimmo che l’unico modo di avere diritto allo spazio era condivider­lo: aprire un centro diurno per i bambini, un ambulatori­o medico per i poveri...». Stesso problema da arcivescov­o di Siena: «Io che vivo in un palazzo del Seicento, nell’arcivescov­ado, mi sono chiesto: è giusto che resti qui? Mi sono ritagliato due stanzette, una è la camera da letto e l’altra lo studio con una scrivania e i libri. Per il resto, si tratterà di farne un uso intelligen­te, aprirlo. Sto pensando ad un pranzo per i poveri nella giornata mondiale del 17 novembre, a momenti di incontro, cercheremo di capire come sfruttare ogni spazio...».

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