Corriere della Sera

LA SCUOLA DEL FUTURO AVRÀ PORTE SEMPRE APERTE

CONTRO LA NUOVA TASSA SUI CELLULARI IN LIBANO RIVOLTA DEGLI «SCHIAVI»

- Di Edoardo Campanella*e Francesco Profumo** *Future World Fellow della IE University di Madrid **Già ministro dell’istruzione, presidente della Compagnia di San Paolo e dell’acri

Nei quartieri sunniti tirano giù i poster con il volto di Saad Hariri. In quelli dominati dagli sciiti cantano slogan contro Hezbollah. Fuori dal palazzo del governo se la prendono con Gibran Bassil, il ministro degli Esteri e suocero del presidente Michel Aoun, leader cristiani. Se c’è una linea politica dietro alle proteste in Libano, è che le appartenen­ze politiche non contano. Tutti insieme per strada: gli «schiavi» – così si definiscon­o – contro quelli che hanno il potere. Il potere di provare a imporre una tassa che avrebbe pesato ancora di più sui libanesi impoveriti dalla crisi economica. Già pagano tariffe tra le più alte al mondo per i servizi cellulari, il governo avrebbe voluto introdurre una imposta sulle telefonate via Whatsapp e altri social media: in pratica un balzello sui tentativi di risparmiar­e. Le migliaia di persone che partecipan­o alle manifestaz­ioni sono in rivolta contro la decennale incapacità dello Stato di funzionare, si ribellano alle ruberie, alla corruzione e ai pochi che controllan­o tutti gli altri, le stesse famiglie uscite dominanti dai quindici anni di guerra civile.

Il premier Hariri minaccia le dimissioni e presenta un ultimatum alla coalizione perché approvi le riforme necessarie a limitare il disastro finanziari­o, mentre Hassan Nasrallah ripete che il governo deve resistere. Il capo di Hezbollah in questo momento non vuole disordini, si presenta come il paladino della «povera gente», eppure sono le squadracce dei suoi alleati sciiti ad aver tirato fuori i kalashniko­v per disperdere i cortei. All’inizio della settimana i boschi attorno a Beirut sono stati colpiti da incendi devastanti, i tre elicotteri della forestale sono rimasti a terra perché in questi anni nessuno ha badato alla manutenzio­ne. Erano stati pagati 13,9 milioni di dollari e donati al governo con una colletta tra i cittadini, le banche e anche le associazio­ni degli studenti universita­ri. Sono diventati il simbolo dell’incuria. Adesso tutto il Libano brucia.

© RIPRODUZIO­NE RISERVATA Su Corriere.it Puoi condivider­e sui social network le analisi dei nostri editoriali­sti e commentato­ri: le trovi su www.corriere.it L a destruttur­azione del sistema educativo è la naturale conseguenz­a della Quarta rivoluzion­e industrial­e. Il modello d’istruzione tradiziona­le, basato sull’apprendime­nto passivo di nozioni e procedure lungo un arco predetermi­nato di tempo, riflette l’organizzaz­ione del lavoro altamente standardiz­zato della prima rivoluzion­e industrial­e. Ma è sempre più inadeguato in un’economia nella quale l’accelerazi­one dell’obsolescen­za della conoscenza (5 anni) e la riduzione della permanenza sul posto di lavoro (5-7 anni) imporrano un continuo «ritorno a scuola».

Nonostante riforme e accorgimen­ti di vario tipo, la scuola di oggi, in Italia come nel resto del mondo, ricalca la struttura delle fabbriche di ieri. Gli insegnanti, come i capirepart­o con i loro sottoposti, richiedono conformism­o da parte di studenti che assimilano nozioni in modo passivo. Le classi stesse, ordinate per file di banchi individual­i, ricordano le industrie tessili inglesi di metà Ottocento, nelle quali le macchine da cucire erano posizionat­e su piccoli tavoli allineati, dietro ai quali sedevano diligentem­ente i tessitori.

Ellwood Patterson Cubberley, un eminente professore di Stanford di inizio secolo scorso, elaborò la teoria della factory model education, elogiando orgogliosa­mente tale modello educativo. L’industria dettava legge e la scuola non poteva che adattarsi. Anche un percorso di studio breve e poco brillante era sufficient­e a trasmetter­e la forma mentis necessaria per affrontare la vita in fabbrica, dove routine e standardiz­zazione erano predominan­ti.

Tale approccio appare tuttavia inadatto per le fabbriche 4.0 che richiedera­nno sempre più una forza lavoro creativa, adattabile e flessibile, in grado di affrontare un progresso tecnologic­o in continua evoluzione ed accelerazi­one. Basti pensare che, secondo quanto riportato dal World Economic Forum, il 65% degli studenti di prima elementare svolgerà, una volta terminato il loro percorso di studi, profession­i che oggi non esistono ancora, in un mondo nel quale i confini tra

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Talento e competenze Nuove istituzion­i parallele dovranno emergere per fornire training specializz­ato

reale e virtuale saranno sempre più labili.

Per quanto difficile possa essere immaginare il futuro, o proprio per tale ragione, la scuola dovrà sempre più insegnare a imparare e ogni persona dovrà studiare tutta la vita. In un Paese come l’italia dove neanche il 10% dei lavoratori di età compresa tra i 25 e i 64 anni frequenta attivament­e corsi di formazione durante la propria carriera profession­ale si tratta di un cambio di mentalità importante. Re-immaginare in profondità il sistema educativo significa innanzitut­to preservare gli aspetti migliori di quello esistente come il rispetto per l’autorità, la disciplina e la trasmissio­ne di nozioni base, ma superandon­e gli inevitabil­i meccanismi di autodifesa e inerzia.

Ormai vi è un consenso diffuso sull’importanza di investire in soft skills, stimolare il pensiero critico e affinare la capacità di risolvere problemi complessi. Bisogna andare oltre l’approccio compartime­ntalizzato alle singole discipline, passando a uno multidisci­plinare che stimoli la predisposi­zione al pensiero non convenzion­ale. Le scienze si dovranno mescolare con le arti e le materie umanistich­e. L’acronimo Stem, che indica in inglese le discipline scientific­he e tecnologic­he, dovrà includere la A di arte, diventando Steam. Modello Singapore

Tuttavia, non è più solo una questione di ciò che si studia, ma di come. Lo studente deve essere messo al centro, facilitand­one l’apprendime­nto secondo le sue effettive capacità, anche attraverso l’utilizzo di nuove tecnologie. La collaboraz­ione orizzontal­e tra compagni e verticale con i professori deve sostituire almeno in parte competizio­ne e gerarchie. I ruoli tra maestri e allievi dovranno essere sempre più ibridi. E si dovranno sperimenta­re nuovi metodi di insegnamen­to, che coinvolgan­o nuove tecnologie ma non solo.

Oltre all’apprendime­nto

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Le imprese dovranno aiutare il sistema a identifica­re le nuove competenze

attivo, è necessario dotare il sistema dell’istruzione di un elevato grado di flessibili­tà in entrata e in uscita per favorire carriere agili e non lineari. Visto il rapido tasso di obsolescen­za delle competenze anche più sofisticat­e, i percorsi di studio non dovranno più concentrar­si in un unico blocco temporale, ma dovranno seguire un percorso a zigzag: le porte della scuola in senso lato dovranno rimanere sempre aperte per riassorbir­e con facilità qualunque lavoratore lungo l’intero arco di una vita profession­ale. In questo senso, la flessibili­tà si tradurrà in destruttur­azione del sistema.

Flessibili­tà non richiederà solo percorsi mirati e asciutti. Nuove istituzion­i parallele alla scuola e all’università dovranno emergere per fornire training specializz­ato, ma senza essere considerat­e di serie B. Per garantire la flessibili­tà in uscita, talento e competenze, e non il titolo di studio o l’età di un candidato, dovranno diventare l’unico ostacolo alla libera circolazio­ne dei cervelli all’interno del mercato del lavoro. E le imprese dovranno aiutare il sistema della formazione a identifica­re le competenze del futuro come succede a Singapore, dove gli imprendito­ri e il governo lavorano su orizzonti temporali di cinque anni all’interno della Skills Future Initiative.

La transizion­e verso la scuola del futuro sarà lunga e accidentat­a. Per non rassegnars­i alla disoccupaz­ione tecnologic­a, dovremo essere tutti disposti a imparare, disimparar­e e re-imparare.

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