Napoli non fare la permalosa L’anima snob di una capitale
«La parola chiave è Naploitation. È una parola-macedonia, inventata mettendone insieme due: Naples e exploitation, sfruttamento, in modo da avere a disposizione una variante di blaxpoitation. Cioè del neologismo che gli americani usano per indicare lo sfruttamento mediatico (exploitation) dell’essere neri (black) da parte degli stessi neri».
Ecco, se un non-napoletano avesse scritto questa frase, e attorno a questa frase un libro con lo stesso titolo, rischierebbe di fare la fine di Luisa Sanfelice e Eleonora Fonseca Pimentel, che fino a qualche anno fa erano celebrate come eroine e ora si ritrovano maledette come nemiche del popolo. L’autore di Naploitation (pubblicato da Guida editori) è per sua fortuna napoletanissimo: Marco Demarco, il fondatore del «Corriere del Mezzogiorno», che alla sua città ha dedicato i saggi più brillanti usciti negli ultimi anni su quel fascinoso mistero che resta Napoli. Ma anche così questa frase, insieme con molte altre del libro, è segno di coraggio intellettuale.
Perché, proprio mentre riconquista la sua centralità culturale e lo status di capitale che le spetta, proprio mentre il mondo legge Gomorra ed Elena Ferrante, Napoli sembra essere diventata una città permalosa. Napoli è come la mamma; la possono criticare solo i figli, cioè i napoletani; gli altri sono tutti nemici, come i piemontesi invasori e il massacratore Cialdini (che era di Modena, ma pazienza).
Al fenomeno neoborbonico Demarco ha già dedicato un saggio anch’esso coraggioso, Terronismo. Ora amplia la sua analisi. Partendo da due racconti. Del primo è protagonista lo stesso autore. Un giorno lo chiama Mimmo Di Francia, cui si devono Champagne e altre canzoni di Peppino di Capri: «Ho Roberto Murolo a cena, vieni?». Demarco va, insieme con Paolo Mieli, allora direttore editoriale di Rcs, che è a Napoli per i primi numeri del «Corriere del Mezzogiorno». Murolo, accarezzando la chitarra, canta con un filo di voce le meravigliose canzoni napoletane del suo repertorio; più due canzoni francesi. Scrive Demarco: «In seguito mi è capitato più volte di raccontare quell’incontro, e sempre più spesso qualcosa rimaneva fuori. Mi vantavo di aver sentito Murolo dal vivo, a casa di amici; ma subito dopo aggiungevo che quella sera il maestro aveva cantato solo canzoni francesi, di Brel e Brassens. Silenziavo quelle napoletane. Senza rendermi conto, facevo lo snob».
Il secondo racconto ha per protagonista Paolo Sorrentino, che in un’intervista al «Corriere» racconta di aver tifato per l’argentina nella mitica semifinale di Italia 90 al San Paolo, «come tutto lo stadio». Demarco contesta questa affermazione, cita a suo sostegno i video su Youtube e altri testimoni, come il giornalista Gianluca Abate, secondo cui il San Paolo tifò Italia e Maradona fu addirittura fischiato al momento del rigore decisivo (che ovviamente segnò). Si chiede Demarco: «Come si spiega questa doppia realtà? Come si spiega che molti napoletani, per compiacere chi li ascoltava, abbiano poi aderito a quella più stereotipata?». L’autore chiama in soccorso Antonio Pascale: «Se tu mi dici che i napoletani sono simpatici, poi succede che ti aspetti da me la simpatia, e sai che c’è: a me dispiace deluderti e allora faccio il simpatico, e quindi il tuo immaginario influenza il mio, va a finire che recitiamo entrambi…». E Valeria Parrella: «È una sensazione vagamente dolce, quando aderisci all’immagine che ti danno gli altri: come un dolore che sta passando sotto l’effetto del farmaco. Ti arrendi a essere un poco meno di quello che sei. Che già la vita ce ne dà troppe occasioni, di sentirci diversi dagli altri e soli come cani».
Sfruttare il vantaggio di essere napoletani quindi può servire, ma può anche provocare frustrazione e dolore. Spiega Demarco che «la napoletanità ci sta bene quando aiuta a risultare simpatici; ci sta male quando su quella superficie di simpatia vediamo affiorare il pregiudizio, cioè tutte quelle cose che si dicono su noi napoletani, che siamo law free, che facciamo quello che ci pare senza alcun rispetto per le regole e per lo Stato».
La napoletanità, fa notare l’autore, è considerata di destra; perché rimanda al sottoproletariato e non alla classe operaia, alla piccola borghesia e non all’avanguardia rivoluzionaria, alla tradizione e non al sol dell’avvenire. La condanna della napoletanità viene esplicitata a sinistra ai tempi di Achille Lauro, napoletano e «napoletanista» per eccellenza. Ma viene in parte sdoganata da Antonio Ghirelli, che nel suo libro-inchiesta intitolato appunto La napoletanità ne dà una lettura positiva. Qui il saggio di Demarco si inoltra in un’analisi coltissima che sarebbe impossibile riassumere in poche righe, e che ci porta nelle opere di Basile, Vico, Croce, Marino, Filangieri, Cuoco, De Sanctis, Labriola, Spaventa, Eduardo, fino a La Capria, Marotta, Galasso, Macry (occasione per riflettere sull’enorme contributo di Napoli alla cultura occidentale), ma anche nella curva B degli ultrà napoletani, tra i cultori del gomorrismo, nei nuovi musei di arte contemporanea, nella censura inflitta da Mario Martone al capolavoro di Eduardo, sulle tracce di Totò e Riccardo Muti, fino alle malversazioni di Bassolino e De Magistris, dall’autore denunciate per tempo. Un libro fitto, nell’impostazione e financo nei caratteri di stampa, che però chi ama Napoli — e pure gli stolti che la odiano — non può non leggere.
Ambiguità A volte il pregiudizio affiora sulla superficie di simpatia verso lo spirito partenopeo