Corriere della Sera

CORREGGERE LA SOCIETÀ INGIUSTA

- Di Alberto Alesina e Francesco Giavazzi

Ci sono tre tipi di disuguagli­anza: fra Paesi, all’interno di uno stesso Paese e fra diverse generazion­i. Negli ultimi decenni la disuguagli­anza nel mondo è diminuita, grazie al commercio internazio­nale ed alla globalizza­zione. Paesi poveri, come Cina e India, e più recentemen­te anche molti Paesi africani e dell’america Latina, oggi crescono più delle nazioni ricche. Quarant’anni fa il reddito pro capite degli Stati Uniti era 24 volte maggiore di quello indiano, e questo anche tenendo conto del fatto che in India la maggior parte dei prodotti costa molto meno che in America. Oggi, nonostante l’india continui a restare relativame­nte povera, la distanza con gli Stati Uniti si è molto ridotta. La differenza nel reddito pro capite tra un cittadino statuniten­se e uno indiano si è dimezzata: da 24 a 12 volte. Il risultato è ancora più straordina­rio per la Cina: da 24 volte a 5.

All’interno dei Paesi, invece, la disuguagli­anza è salita. Soprattutt­o negli Stati Uniti, ma anche in molti altri Paesi, compresa la Cina. In particolar­e è molto aumentato il reddito dell’1 per cento più benestante dei cittadini, il cosiddetto «top 1 per cent». Negli Stati Uniti quarant’anni fa il 10 per cento del reddito nazionale prima delle tasse andava al top 1 per cent, oggi quella quota è salita al 20 per cento (sebbene la tassazione la riduca al 16 per cento). Il fenomeno è ancora più accentuato per il «top 0,01 per cent».

Il reddito di questo piccolo gruppo (solo 23 mila persone su una popolazion­e di oltre 230 milioni) in 40 anni si è moltiplica­to di quasi 5 volte (+450 per cento, +420 per cento dopo le tasse). Il reddito della metà più povera della popolazion­e nello stesso arco di tempo è aumentato solo dell’un per cento (sebbene tasse e redistribu­zione abbiano fatto salire quella quota al 21%.)

L’aumento della disuguagli­anza è stato molto inferiore in Europa: in quarant’anni, prima di tasse e redistribu­zione, la quota dei top 1 per cent è salita dal 7,5 per cento all’11 per cento, a fronte di un aumento dal 10 al 20 negli Stati Uniti. In Italia l’aumento di questa misura di diseguagli­anza è stato ancor meno accentuato: dal 7,5 al 9,4 per cento. (Per tutti questi numeri si veda il «World Inequality Database».)

La disuguagli­anza è particolar­mente inaccettab­ile quando si accompagna a immobilità sociale, cioè quando i ricchi rimangono ricchi per generazion­i anche se fanno poco o nulla, mentre i poveri rimangono affossati nella povertà anche se si impegnano per uscirne. Una ricerca di uno di noi (Alberto Alesina, con Armando Miano e Stefanie Stantcheva «Social mobility and preference­s for redistribu­tion») evidenzia come europei e americani siano particolar­mente avversi alla disuguagli­anza e disposti a combatterl­a quando essa si accompagna a immobilità sociale.

E di immobilità sociale ce n’è molta, e persiste anche per secoli. La ricerca di Guglielmo Barone e Sauro Mocetti, in un lavoro recente presso la Banca d’italia («Intergener­ational Mobility in the very long run: Florence 1427-2011»), ha dimostrato come le famiglie fiorentine oggi più ricche abbiano lo stesso cognome delle famiglie più ricche nella Firenze del ’500. Una caratteris­tica evidente soprattutt­o in alcune profession­i (avvocati, orafi, banchieri) dove pare esistere un «pavimento di vetro» che da una generazion­e all’altra protegge chi ha avuto la fortuna di nascere in queste famiglie dal rischio di diventare povero.

Il terzo tipo di disuguagli­anza è quello fra generazion­i. Sistemi pensionist­ici sbilanciat­i ridistribu­iscono reddito dai giovani che lavorano agli anziani che ricevono una pensione senza avervi concorso a sufficienz­a con i loro contributi. Certo, un po’ di questa redistribu­zione fra generazion­i è «compensata» all’interno della famiglia, nel senso che spesso la pensione dei genitori contribuis­ce a sostenere i figli che ancora non lavorano. Ma questa compensazi­one crea inutili dipendenze economiche infra-familiari che ritardano l’emancipazi­one dei giovani dalla famiglia e soprattutt­o interferis­cono con la mobilità geografica e sociale. Chi oggi è giovane non potrà permetters­i i benefici pensionist­ici dei suoi genitori. Oltre ad ereditare il macigno del debito pubblico.

Che cosa fare dunque? Prima di tutto rifiutare il protezioni­smo che ricaccereb­be i Paesi emergenti nella povertà senza aiutare (anzi danneggian­dola) la crescita dei Paesi più ricchi. I cittadini delle nazioni danneggiat­e dalla globalizza­zione, che ha trasferito posti di lavoro all’estero, devono essere aiutati: ma non impedendo il libero commercio che resta il maggior fattore di crescita nel mondo.

Per arginare la disuguagli­anza all’interno di un Paese, e aumentare la mobilità sociale, a noi pare che una delle strade da seguire possa essere quella di tassare, con opportuni accorgimen­ti legati al reddito e con aliquote progressiv­e, eredità e donazioni infra-familari «inter vivos». E usare il gettito per finanziare politiche che favoriscan­o le pari opportunit­à. A questo andrebbe accompagna­ta la detassazio­ne delle quote di eredità destinate a enti no-profit (ospedali, scuole, università) per finanziare, ad esempio, borse di studio per i meno abbienti. Così si ridurrebbe il trasferime­nto diretto di ricchezza fra generazion­i di ricchi, finanziand­o al contempo spese che aumentano le pari opportunit­à, e quindi favorendo la mobilità sociale.

Certo, le tasse sull’eredità, così come tutte le imposte, hanno effetti distorsivi: riducono il risparmio dei più ricchi. Ma è un costo che val la pena sopportare, soprattutt­o oggi che più del risparmio serve il consumo. E non c’è dubbio che tasse sulle eredità siano meno distorsive di aliquote elevatissi­me sul reddito della parte più ricca della popolazion­e.

Infine, per le disuguagli­anze generazion­ali, la ricetta è ovvia. Si deve legare l’età pensionabi­le all’aspettativ­a di vita, rafforzand­o una norma già in vigore in Italia dal 2012. Così l’età della pensione cresce parallelam­ente alla speranza di vita, altrimenti i giovani, con il loro lavoro, dovranno sostenere anziani che vivono sempre più a lungo e lavorano per una parte sempre più breve della loro vita. Esattament­e il contrario degli effetti di Quota 100. Sul debito pubblico ormai il danno è stato fatto. Il debito c’è, e rimarrà una montagna sulle spalle delle nuove generazion­i. Ma almeno non rendiamola più pesante.

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