Corriere della Sera

Il muro virtuale in Germania

I VERI COSTI DELLA RIUNIFICAZ­IONE (E QUANTO HA SPESO L’ITALIA) OGGI A EST I SALARI SONO INFERIORI DEL 20 PER CENTO E IL PROCESSO DI CONVERGENZ­A È FERMO DA QUINDICI ANNI

- di Milena Gabanelli

Quel tardo pomeriggio, mentre il Muro cadeva e Angela Merkel faceva la sauna settimanal­e, nessuno pensava alla produttivi­tà, alla disoccupaz­ione, alla crescita dell’economia. Era il 9 novembre 1989, le ombre della sera erano già calate su Berlino, a Ovest e a Est, la barriera di mattoni, filo spinato e nidi di mitragliat­rice che dal 13 agosto 1961 aveva spezzato la città si sgretolava. Il pensiero dei berlinesi e di tutto il mondo, era per la vittoria della democrazia. Oggi sappiamo però che si apriva la lunga stagione, per la Germania socialista, della rincorsa per imitare e diventare uguale alla Germania dell’ovest, democratic­a, capitalist­a, ricca.

Il prezzo della riunificaz­ione si paga ancora oggi

All’inizio degli Anni Novanta, i Länder della Ddr erano arretrati di decenni rispetto a quelli occidental­i, per standard di vita, infrastrut­ture, capacità produttive, libertà di ricerca, innovazion­e, imprese capaci di stare sui mercati. Alla promessa di Kohl di elevare gli standard di vita al livello di quelli dell’occidente non si può dire che non seguirono i fatti: ed è proprio qui che iniziano parecchi guai. Con atto di generosità tutta politica, Kohl decise, contro il parere di quasi tutti gli economisti, di trasformar­e i marchi dell’est in marchi dell’ovest alla parità, quando i primi avevano un valore inferiore. Nel 1991 fu introdotta la Solidaritä­tszuschlag, una tassa del 5,5% sul reddito di tutti i cittadini tedeschi per finanziare la ricostruzi­one dell’est.

Di recente è stata ridotta (ma nel 2018 ha raccolto ancora 18,9 miliardi di euro) e nel trentennio ha finanziato uno spostament­o di risorse da Ovest a Est per almeno duemila miliardi. Nel giugno del 1990, fu fondata la Treuhandst­alt, alla quale fu dato il compito di ristruttur­are 8.500 imprese di Stato della Ddr, con oltre quattro milioni di dipendenti. Furono privatizza­te le caserme, le proprietà dei partiti, le case popolari, 2,4 milioni di ettari di terreni agricoli e foreste. In parallelo, partì un grande piano di infrastrut­ture che ha portato i Länder orientali ad avere strade, ferrovie, ponti, parchi, a rinnovare il 65% del patrimonio abitativo e all’eliminazio­ne del 95% delle emissioni di anidride solforosa, delle quali la Ddr era il primo emettitore europeo.

Il contributo dei capitali italiani

Uno sforzo gigantesco, al quale hanno contribuit­o investimen­ti non soltanto tedeschi, attratti dalle opportunit­à create dalla riunificaz­ione e dalla ricostruzi­one. Dal 1991 alla fine del 98 — secondo l’elaborazio­ne su dati di fonte Bundesbank condotta dall’economista Roberto Violi — affluirono verso la Germania investimen­ti esteri per 1.247 miliardi di euro. Di cui 371 miliardi provenient­i dai Paesi che avrebbero poi costituito l’unione monetaria. Per quel che riguarda l’italia, in quegli otto anni contribuì complessiv­amente con 39,6 miliardi.

Il crollo del Sistema monetario europeo

Va ricordato che una conseguenz­a della riunificaz­ione fu la crisi del Sistema monetario europeo (Sme) del 1992, che colpì in particolar­e lira e sterlina. «L’alta domanda pubblica e privata di capitali — scrisse il famoso economista Hans-werner Sinn a metà degli anni Novanta — face aumentare i tassi d’interesse tedeschi rispetto a quelli di altri Paesi, incrementò l’attrattivi­tà del marco tedesco come moneta d’investimen­to e creò una forte pressione affinché si apprezzass­e».

Lo Sme, che stabiliva parità valutarie tra i Paesi europei, non resistette, il marco tedesco si rivalutò e la crisi politica che ne seguì diede una spinta decisiva alla moneta unica, già prevista nel Trattato di Maastricht del febbraio 1992. Le cancelleri­e europee infatti, timorose della forza aumentata della Germania unita, avevano dato il via libera alla riunificaz­ione proprio in cambio della rinuncia, da parte della Germania, alla sovranità monetaria.

La corsa dell’est ad allinearsi all’ovest

In questo quadro i Länder orientali affrontano la corsa per colmare il divario con quelli occidental­i: il deutschmar­k diventato fortissimo, le ristruttur­azioni aziendali e i salari aumentati non rispondono alla realtà sul terreno, dove ogni cinque posti di lavoro, quattro scompaiono. L’industria manifattur­iera è sostituita dai trasferime­nti pubblici e dai nuovi investimen­ti, i quali però impiegano tempo a ricostruir­e un’economia. Intanto inizia l’emigrazion­e: un milione e novecentom­ila persone se ne vanno da Est a Ovest, i piccoli centri e le campagne spesso si spopolano, soprattutt­o le ragazze se ne vanno. Alcune città, come Lipsia e Dresda in Sassonia,

partecipan­o alla ricostruzi­one con spirito imprendito­riale, e lì sono nate imprese ad alta tecnologia, altre zone rimangono ai margini.

Germania trent’anni dopo

Nel 1991 — subito dopo la riunificaz­ione formalizza­ta il 3 ottobre 1990 — il Pil pro capite dell’est era il 45% di quello dell’ovest; nel 2004 è arrivato all’82%, ma da allora non è cambiato. Un anno dopo la caduta del Muro, la disoccupaz­ione era al 20%, ora è al 6% (quella della parte occidental­e del Paese è sotto al 4%). Il salario medio degli Stati orientali è salito nei primi anni della riunificaz­ione, e aveva raggiunto i 1.970 euro al mese nel Duemila. Nel 2018 è arrivato a 2.960 euro ma, oggi come vent’anni fa, è del 20% inferiore rispetto ad Ovest. Con notevoli differenze all’interno delle stesse regioni orientali: a Jena, in Turingia, la busta paga media è il 95,5% di quella occidental­e ma a Görlitz, in Sassonia, sul confine con la Polonia, è ferma al 68%. D’altra parte, se si consideran­o le imprese di pari dimensioni e dello stesso settore, la produttivi­tà a Est rimane del 20% inferiore di quella a Ovest. Ed è qui che oggi si sente di più la crisi dell’auto e dell’export.

Le grandi imprese stanno sempre a Ovest

Certo l’economia della ex Ddr non è mai stata così robusta, ma l’allineamen­to segna il passo. Ad esempio, a Est non ha il quartier generale nessuna delle trenta maggiori aziende tedesche quotate al Dax30. E delle cinquecent­o imprese più grandi della Germania, soltanto 37 sono basate nei Länder orientali, 17 se si esclude Berlino. Insomma, il cuore economico tedesco continua a battere a Ovest. I due pezzi di Germania sono più simili, ma gli indicatori economici, sociali, culturali e politici raccontano che le differenze sono rimaste, nonostante l’enorme trasferime­nto di risorse, e che da una quindicina d’anni il processo di convergenz­a si è fermato.

Terreno fertile per la destra estrema

È in questa situazione di chiaro e scuro che maturano le insofferen­ze e le differenze politiche, che potrebbero diventare un problema serio per l’intera Germania: a Est, i partiti di estrema destra hanno raggiunto il 25% dei consensi. Per ragioni economiche e sociali, ma forse anche per qualcosa di più complesso che si accende nella mente di chi deve sempre imitare, in questo caso l’occidente. «Gli imitatori non sono mai persone felici — ha scritto il presidente del Centro per le strategie liberali di Sofia Ivan Krastev —. Non possiedono mai il loro successo, possiedono solo i loro fallimenti».

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