Corriere della Sera

Sfida all’occidente seminando paura e vittime innocenti

- di Danilo Taino

«Era un animale. Un animale senza Dio», ha detto Donald Trump durante la conferenza stampa nella quale annunciava la morte di Abu Bakr al-baghdadi, il leader dell’isis. Parole forti, senza pietà che sono però certamente condivise dalle famiglie delle vittime degli attentati degli anni scorsi in Francia, in Belgio, in Gran Bretagna, negli Stati Uniti, in Siria e in tutto il Medio Oriente. Dai genitori, dalle sorelle e dai fratelli delle centinaia di ragazze rapite e rese schiave dalle milizie del Califfo, da chi ha pianto le decine di ragazzi decapitati dagli uomini in tuta arancione. Parole che si possono usare solo in casi speciali, fuori dall’ordinario: questo è uno di quei casi, la fine di un individuo mosso non solo da cecità inumana travestita da religione ma anche da un’illusione di potenza che non si poneva limiti morali.

Il suicidio di al-baghdadi – avvenuto sotto l’attacco delle forze americane con il consenso di tutti i Paesi e delle milizie che hanno condotto la guerra al cosiddetto Stato Islamico – per quel che è rimasto dell’isis si tratta di un colpo durissimo, che arriva dopo la sconfitta sul terreno dei combattent­i islamici che hanno ormai perso tutti i territori che controllav­ano. Sarebbe

stato probabilme­nte definitivo se il ritiro delle truppe americane dalla Siria nelle settimane scorse non avesse provocato la fuga dalle prigioni di centinaia di militanti dell’organizzaz­ione terroristi­ca che erano detenuti dai curdi. Purtroppo, alcuni di loro, probabilme­nte assassini, sono ora più o meno liberi e potranno in qualche modo cercare di riorganizz­arsi e di tornare a colpire. Nel Medio Oriente e in Europa.

Trump si è appuntato sul petto la medaglia dell’annullamen­to di al-baghdadi e si tratta sicurament­e di un successo che conferma la capacità di attacco delle forze americane, dopo che altrettant­o avevano fatto con Osama bin Laden nel maggio 2011. Ma è una medaglia che, sul petto, non copre la macchia di avere lasciato al loro destino, sotto l’attacco della Turchia, le migliaia di alleati curdi che sono stati determinan­ti negli anni scorsi anche nella guerra contro l’isis e nella liberazion­e dei territori dello Stato Islamico.

Il volto barbuto e truce di al-baghdadi è aleggiato per anni, in un alone di mistero, sulle città europee e nelle strade polverose del Medio Oriente battute dalle sue milizie. Ha attratto decine di giovani anche dai centri e dalle periferie di Francia, Belgio, Gran Bretagna, Italia, America, Asia. Ha seminato sgomento e paura, ha messo gran parte dei Paesi di fronte alla minaccia di un soggetto non statuale armato che non rispondeva alle regole della guerra tradiziona­le ma minacciava non di meno la libertà di vivere con un minimo di sicurezza. Ha sfidato le democrazie e i regimi autoritari, anche quelli retti da leggi di carattere islamico. Era nemico di tutti e questo lo faceva forse sentire ancora più grande. Alla fine ha perso, rovinosame­nte, come era certo accadesse, ben prima della sua morte per suicidio con i suoi figli al fianco, come aveva deciso di finire ben prima di lui un altro «animale senza Dio», Joseph Goebbels.

Nella coda, ma per alcuni versi dovrebbe essere alla testa, di questa vicenda c’è qualcosa su cui l’europa dovrebbe interrogar­si. Con serietà e urgenza. Nel caso dell’abbandono dei curdi ha criticato Trump e gli Stati Uniti. Nel caso della morte di al-baghdadi, si feliciterà probabilme­nte con Washington. In entrambe le situazioni, come in tutte quelle che richiedono una presenza politica e geopolitic­a, non c’è però stata. Perché non ha ritenuto di esserci da decenni e oggi non è in grado di agire, ha rinunciato ad avere un ruolo. Irresponsa­bile. Siamo spettatori: soddisfatt­i oggi e fino a quando il lavoro sporco lo faranno altri, nel male e nel bene. Ma spettatori di fronte ai curdi come ad albaghdadi. Alle vittime come agli assassini.

Sconfitta

La morte del leader per quel che è rimasto dello Stato Islamico sarà un colpo durissimo

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