Corriere della Sera

Nel campo dei reduci «Un altro prenderà presto il suo posto»

- DAL NOSTRO INVIATO

AL HOL (SIRIA NORD-ORIENTALE) «Dobbiamo morire, è il destino di ogni essere vivente. Ma lui è il Califfo Abu Bakr al Baghdadi, non muore mai. Vale il ruolo, non la persona. Ne faranno un altro che prenderà il suo posto!». Due o tre donne completame­nte velate non si tirano indietro nel dimostrare il loro totale sostegno al Califfo. «Quante volte lo hanno dato per morto e poi non era vero?», reagiscono ostili. Tutte la pensano davvero così? Difficile dire. La maggioranz­a chiede assistenza medica per i figli e di avere notizie di mariti, fratelli, padri, tutti combattent­i tra i ranghi dell’isis. Catturati dai curdi, oppure feriti, morti? Non lo sanno. «Che ne è stato di Mohammad? Mio figlio. Ha solo 25 anni. Ci siamo visti l’ultima volta durante la battaglia di Baghouz a gennaio. Non ne so più nulla. Potete aiutarmi?», implora Safa Ahmad, 50 anni, originaria di Aleppo. Un’altra, Aisha Othman, 27 anni, due figli, chiede di Mahmud Ibrahin, suo marito 31 enne, ferito nei villaggi lungo l’eufrate dopo la caduta di Raqqa nel 2017. «Vorrei andare dai mei genitori a Mosul. Ma non ho passaporto, nessuno garantisce per me», esclama mostrando uno sgualcito foglietto rilasciato dall’ufficio locale della Croce Rossa. Fa ancora caldo, pur a tardo ottobre. Le donne sono sudate, le vesti sgualcite. Anche i tendoni delle agenzie umanitarie Onu mostrano l’usura del luogo. Per puro caso siamo arrivati nel centro più popoloso di quello che resta dei seguaci di Al Baghdadi proprio poche ore dopo la notizia della sua morte. Una coincidenz­a, perché la nostra visita era programmat­a da tempo e le autorità militari curde di Rojava danno i visti col contagocce alla stampa estera per venire al grande campo di detenzione, a Al Hol. Quasi 71.000 sfollati, prigionier­i genericame­nte sospettati di sostenere l’isis, per lo più donne irachene e siriane con i figli, miste però ad alcune migliaia di fanatiche pericolose, tra le quali oltre 3 mila volontarie straniere venute apposta per combattere la guerra santa dell’isis e «donare» al Califfo i loro figli. Sono piccoli

jihadisti in nuce: ne hanno oltre 7.000. Vedove, mogli, orfani dell’isis, sono ritenuti talmente pericolosi da essere chiusi in un recinto speciale. Tra loro pare vi sia anche un’italiana, di cui però non dicono il nome. «Dobbiamo stare all’erta. Ci aspettiamo attentati e rivolte in ogni momento per vendicare la morte di Al Baghdadi. Esistono anche cellule attive dell’isis nei villaggi arabi qui vicini e nella città di Hasakah. Più volte hanno tentato di organizzar­e evasioni di massa. E non sono mancate violenze interne con accoltella­menti e persino tentativi di decapitazi­oni», spiega la trentenne Meshgar Mohammad, incaricata dall’amministra­zione curda di gestire le straniere. «Abbiamo il problema della carenza di guardie. Sino a tre settimane fa c’erano oltre 800 sentinelle armate al campo. Ma, da quando l’esercito turco ha lanciato l’offensiva contro le nostre regioni, almeno 500 sono andate a combattere al fronte, 107 hanno già perso la vita a Ras al Ayn e Tal Abyad. Con le 300 rimanenti possiamo fare poco, la sicurezza non è più garantita», aggiunge. A onore del vero, il campo oggi appare calmo, senza segnali di rivolte imminenti. Non molto diverso da come lo avevamo visto a marzo, dopo la fine della battaglia di Baghouz, che aveva segnato la fine della dimensione territoria­le del Califfato. Le donne chiedono medicine. Tre cecene si nascondono il viso, ma mostrano i figli emaciati, bisognosi di cure. Due uzbeke, completame­nte velate di nero, le scarpe sfondate, piangono la loro situazione: «A casa non possiamo tornare. I nostri uomini sono morti, non abbiamo i soldi per i figli che neppure vanno a scuola». Quando chiediamo cosa pensano della morte di Al Baghdadi, alcune alzano la spalle: «Non ci riguarda più. Adesso dobbiamo solo sopravvive­re». Però la reazione è unanime quando si tratta dei soldati di Damasco. «Guai se arriverann­o qui. Ci massacrera­nno tutti. I militari del regime siriano sono stati i nostri più crudeli nemici dal tempo delle rivolte popolari contro Assad nel 2011. Non hanno pietà, uccidono, torturano», dice tra le tante Rana Muad, 34enne di Mosul.

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