Foto in posa, dettagli cruenti e autoelogi Lo show di Donald comandante in capo
Trump usa il raid per ricompattare i repubblicani e il suo elettorato nella battaglia sull’impeachment
«Era come vedere un film!». Nel momento più difficile della sua presidenza, incalzato da un impeachment che minaccia la sua sopravvivenza politica, criticato anche dai repubblicani per aver abbandonato i curdi, con l’eliminazione di Al Baghdadi, Donald Trump prende una boccata d’ossigeno.
L’operazione delle forze speciali viene trasformata dal presidente in evento televisivo con 4 obiettivi: consolidare il consenso nel suo elettorato; presentare l’impeachment come l’attacco antipatriottico a un presidente che difende l’america; ricompattare il fronte repubblicano, coi «falchi» critici per la sua politica siriana, come il senatore Lindsey Graham, che ieri mattina erano alla Casa Bianca per lodarlo pubblicamente; ricucire il rapporto coi servizi, spesso sconfessati e ora in grado di svolgere un ruolo-chiave nell’iter dell’impeachment.
Il tutto costruito nei 50 minuti di una straordinaria diretta televisiva nella mattina domenicale americana. Il presidente illustra con molti dettagli l’operazione degli otto elicotteri, il sorvolo per 70 minuti di aree molto pericolose, i contatti coi governi dei Paesi interessati, la scelta di non informare i leader democratici del Congresso («dovevamo mantenere il segreto, Washington è piena di spifferi»). Ma, soprattutto, insiste sulla fine del fondatore dell’isis raccontando delle due mogli cadute, dei tre figli che Al Baghdadi si è portato dietro nei cunicoli sotterranei, condannandoli a morire con lui. Trump lo definisce «un animale codardo» che «è morto come un cane piangendo e gridando» quando, arrivato in fondo al cunicolo, si è fatto esplodere. E, ancora, la perizia del commando che è entrato nel compound sfondando i muri per non cadere nella trappola delle porte, minate. Missione conclusa senza perdite Usa (unico «eroe» il cane che inseguiva Al Baghdadi nel cunicolo, ferito) mentre sul terreno sono rimasti molti combattenti dell’isis, liquidati da Trump come, «perdenti, marionette spaventate».
I toni sono quelli, ormai consueti, iperbolici e di autoelogio. Ma in un momento così drammatico colpiscono di più: è stato il presidente a dare via libera all’attacco, ma ne parla come se l’avesse condotta in prima persona, racconta di aver seguito tutto dalla Situation
Room e fa distribuire una foto molto diversa da quella scattata dal fotografo della Casa Bianca nel 2011, quando fu ucciso Osama bin Laden. Lì il presidente era quasi una figura secondaria, mentre ora l’immagine è da comitato centrale sovietico, con Trump al centro di uno schieramento di generali e membri del suo governo.
Trump ringrazia i Paesi che hanno collaborato, dalla Turchia alla Russia (ma Mosca nega di aver collaborato), i militari e l’intelligence che ha raccolto le notizie. Per ultimi, ringrazia anche i curdi, ma sottolinea soprattutto che questo è il coronamento di un’operazione ordinata da lui fin dal giorno del suo insediamento, quasi tre anni fa. Nessuna menzione degli sforzi di Obama e della coalizione antiisis da lui creata. La retorica autocelebrativa e il linguaggio crudo sono discutibili, ma piacciono al suo elettorato. Il rischio, però, è quello di una corsa sfrenata verso il culto della personalità: ieri il presidente ha detto senza ombra di ironia che «l’isis sa usare Internet meglio di chiunque altro, salvo Donald Trump» mentre la sua addetta stampa Stephanie Grisham ha definito l’ex capo di gabinetto John Kelly, ora critico nei confronti del leader, un uomo «incapace di gestire il genio del nostro grande presidente».
Il rapporto coi servizi Il presidente prova anche a ricucire con i servizi segreti, spesso sconfessati