«Paura e proselitismo L’europa coinvolta più di ogni altro posto»
«Alungo termine, sul piano strutturale, l’idea di un jihadismo internazionale rimarrà, anche se dopo Al Qaeda e l’isis non sappiamo ancora in quale forma. Ma se restringiamo il campo, l’isis è stato una “bolla”, un fenomeno di impatto enorme per alcuni anni. Oggi quella bolla è scoppiata», dice Olivier Roy, grande specialista francese dell’islam.
Qual è stata la particolarità dell’isis?
«Questa organizzazione è riuscita in un’impresa straordinaria, cioè affascinare decine di migliaia di giovani europei, americani, russi. Ha fondato una costruzione narrativa basata su un’estetica del terrorismo e della violenza che ha avuto un impatto considerevole in una certa parte della gioventù occidentale».
Soprattutto in Europa?
«Da noi si sono avuti gli effetti più importanti. Per l’europa non conta poi molto il fatto che esistano emirati islamici in Ciad o nello Yemen, ma che giovani nati e cresciuti qui, spesso convertiti, abbiano commesso attentati e siano andati a fare la jihad in Siria completamente affascinati dalla morte. Nel 95% degli attentati commessi in Europa i terroristi sono morti. L’ultimo alla prefettura di polizia a Parigi».
Dopo l’uccisione di Al Baghdadi la fascinazione per l’isis durerà?
«Le azioni dell’isis hanno avuto un impatto strategico nullo, non abbiamo avuto il World Trade Center, ma l’effetto di terrore è stato massimo. Io credo però che adesso la grande costruzione narrativa si sia sgonfiata».
Le modalità della morte del leader sono importanti in quest’ottica?
«Sì, molto. La sua è una morte da miserabile, non certo da eroe. Ricorda quella di Bin Laden, dove non c’è alcun spazio per l’eroismo».
Il presidente Trump non a caso ha detto «è morto come un cane, come un vigliacco».
«Sì, anche se Trump non ha alcun merito in quest’operazione ma solo la fortuna di poterne trarre beneficio proprio nel momento in cui ha deciso il ritiro dal Nord della Siria. Comunque, la morte di Al Baghdadi e il modo in cui si è prodotta sono un colpo fatale all’isis, che era già in grande difficoltà. Stiamo assistendo alla fine del mito. È un colpo fatale perché l’immagine dell’isis ne esce distrutta, e l’isis si fondava soprattutto sull’immagine e i colpi mediatici».
Una fine annunciata?
«Ne abbiamo visto i segni in modo empirico nell’abbassamento del livello dei terroristi negli ultimi due anni. Non ci sono state azioni in stile Bataclan, condotte da persone strutturate, nessuna rete sofisticata. Passano all’azione solo dei marginali, persone psicologicamente fragili che cercano la morte, figure isolate che possono anche essere molto pericolose, lo abbiamo visto con i cinque morti alla prefettura, ma comunque non i professionisti del Bataclan».
Vede all’orizzonte strutture pronte a succedere all’isis?
«Per il momento è troppo presto. Poi il crollo del mito rivoluzionario non equivale alla fine immediata del terrorismo, lo abbiamo visto anche con le Brigate rosse in
Italia: per vent’anni qualcuno ha continuato a commettere attentati, ma niente di paragonabile agli anni di piombo. Inoltre, non vedo come una nuova organizzazione potrebbe fare meglio dell’isis, che ha avuto un’aura di magia: la conquista di un territorio immenso, una propaganda molto abile con i codici della cultura giovanile. Per fortuna quella fase è finita».
Cosa rimane in Europa di quell’epoca?
«La radicalizzazione del dibattito. La questione del velo è cominciata in Francia trent’anni fa, ma oggi qualsiasi segno religioso musulmano viene subito collegato al terrorismo. È considerato radicale e sospetto pregare, smettere di bere alcol, mettersi il velo. L’isis non c’è più, ma i suoi effetti si fanno ancora sentire. Finiti, speriamo, gli attentati spettacolari, resta la criminalizzazione della pratica religiosa».
La fine del mito È morto da miserabile, non da eroe E la sua fine assesta un colpo fatale all’isis, che si fondava molto sui media La sua immagine ne esce distrutta