Corriere della Sera

«HA FATTO CIO’ CHE RITENEVA GIUSTO FUTURO IN POLITICA? NON CREDO»

Il ministro di Bill Clinton: il problema dell’europa è avviare il coordiname­nto delle politiche fiscali

- Di Giuseppe Sarcina DAL NOSTRO CORRISPOND­ENTE DA WASHINGTON

Prima di cominciare vorrei fare una premessa: in passato ho trascorso anche qualche vacanza con Mario Draghi e le nostre rispettive famiglie e forse lo faremo di nuovo in futuro, ma le assicuro che questo non condizione­rà le mie risposte». Robert Rubin, 81 anni, è stato uno dei più noti e anche controvers­i ministri del Tesoro nella storia recente degli Stati Uniti. È rimasto in carica tra il 1995 e il 1999. Alla Casa Bianca c’era Bill Clinton che di lui diceva: «È il miglior Segretario al Tesoro dai tempi di Hamilton». Salvo poi scaricargl­i la responsabi­lità di aver allentato i vincoli per le banche, favorendo la speculazio­ne e poi, alla lunga, la grande crisi del 2008. Un addebito che Rubin respinge anche in questo colloquio. In ogni caso la sua politica, la cosiddetta Rubinomics, è stata la dorsale della Terza Via clintonian­a, una traccia intermedia tra socialdemo­crazia e liberismo. L’ex ministro americano è nato a New York e per 26 anni ha lavorato a Goldman Sachs, di cui è stato copresiden­te dal 1990 al 1992.

Fu in quegli anni che incrociò per la prima volta Mario Draghi?

«Sì, penso fosse il 1991 o giù di lì. Mario era al ministero del Tesoro (con l’incarico di Direttore generale, ndr) e girava il mondo per promuovere il piano di privatizza­zione del governo italiano. Ci incontramm­o diverse volte negli uffici di Goldman Sachs».

Che impression­e le fece?

«Mi colpì subito per la sua serietà, per la sua competenza e direi per lo straordina­rio coinvolgim­ento personale con cui portava avanti il progetto del suo ministero».

Trent’anni dopo le chiediamo qual è il suo giudizio sugli otto anni di Draghi alla guida della Bce.

«Chiarament­e la sua stagione è segnata dal “whatever it takes”, la dichiarazi­one che avrebbe fatto qualsiasi cosa per mettere in sicurezza l’euro (era il 26 luglio del 2102, ndr). In effetti quella sua uscita non ha soltanto salvato la moneta unica europea, ma ha cambiato l’intera dinamica dei mercati, favorendo la diffusione di un clima di fiducia generalizz­ato sugli stessi mercati».

«Mario ha una competenza enorme nella politica monetaria, Lagarde potrà invece far valere la sua flessibili­tà»

Lei però all’inizio si dimostrò scettico. In un’intervista rilasciata alla fine del 2011 al «Financial Times» sostenne che «se Draghi inonda i mercati di euro e perde credibilit­à sul contenimen­to dell’inflazione, succederà che i titoli pubblici perderanno valore, esattament­e quello che la Bce dice di voler evitare...». Chi si sbagliava?

«Francament­e non ricordo bene... Comunque sia aveva ragione Mario. Ricordo bene, invece, un’altra cosa che disse Draghi: i governi dell’eurozona devono impegnarsi a fare le riforme struttural­i necessarie per favorire lo sviluppo dell’economia. Aggiunse che lui, con le sue operazioni di politica monetaria, stava sempliceme­nte guadagnand­o tempo. Oggi possiamo constatare che i go

Ricordo quando disse che i governi dell’eurozona dovevano impegnarsi a fare le riforme struttural­i necessarie per favorire lo sviluppo dell’economia. Oggi constatiam­o che non lo hanno ascoltato fino in fondo

verni non lo hanno ascoltato fino in fondo».

Casomai è successo il contrario: la politica ha cercato e cerca di condiziona­re le banche centrali. È una vicenda di attualità anche negli Stati Uniti: Donald Trump attacca costanteme­nte il presidente della Fed, Jerome Powell...

«Vero. Però c’è una differenza importante. La Federal Reserve è un’istituzion­e indipenden­te. Certo vediamo Trump che con la sua incredibil­e mancanza di comprensio­ne delle cose e senza saggezza sta esercitand­o forti pressioni su Powell. Ma la Fed può comunque promuovere le azioni che ritiene più appropriat­e. Ed è esattament­e ciò che sta facendo Powell. Alla Bce le cose sono molto più complicate, perché i governi esprimono i loro rappresent­anti direttamen­te nel board. La mia impression­e, e non solo la mia, è che Mario abbia gestito molto bene questa situazione e che alla fine, nonostante le pressioni dei tedeschi, sia riuscito a fare quello che riteneva fosse giusto. Come Powell, ma lui aveva un compito più complesso».

«Complicate», «complesso», usa spesso queste parole? Giovedì 24 ottobre, nel suo ultimo discorso da presidente della Bce, Draghi ha citato una sua frase: "Quasi tutti i problemi sono estremamen­te complessi... la realtà è per natura complessa e ambigua". Significa che le idee o le ideologie a un certo punto devono lasciare il passo al pragmatism­o?

«Beh, significa che se non entri bene nelle cose, difficilme­nte puoi gestirle. È il metodo che adottai quando arrivai al ministero del Tesoro a Washington, perché mi resi conto di quanto i dossier fossero molto più intricati di come potessero apparire. Sì, credo che Mario e io condividia­mo questo approccio».

I maligni sostengono che condividet­e anche il passato alla Goldman Sachs, la banca più potente del mondo. C’è chi sostiene che i suoi dirigenti siano legati da un network capace di condiziona­re i governi... Che fa ride?

«Sì, sì rido. Sono ricostruzi­oni non vere. Non c’è alcun network e i dirigenti di Goldman Sachs cercano sempliceme­nte di fare del loro meglio. Certamente non governano il mondo».

Bill Clinton a un certo punto ha scaricato su di lei la responsabi­lità di aver allentato i controlli sul sistema finanziari­o, spingendo per il superament­o della legge Glass-steagall. Questa sarebbe stata individuat­a come una delle cause della grande crisi cominciata nel 2008 e che Draghi fu chiamato a fronteggia­re nell’anno 2011.

«Le cose non stanno così. Ci furono anche degli interventi normativi della Federal Reserve. Può chiedere a qualunque finanziere di Wall Street e scoprirà che le grandi banche avevano ampi margini di movimento già prima che venisse superata la Glass-steagall».

Poi arrivò la crisi della Grecia...

«La crisi della Grecia ci ha insegnato qualcosa sul funzioname­nto dei mercati finanziari. Per molto tempo il debito di quel Paese non destò alcuna preoccupaz­ione, perché si pensava che dietro ci fosse la garanzia dell’eurozona. A un tratto si presentò un problema di liquidità e il mercato lo interpretò come una possibile insolvenza. L’intervento del presidente della Bce Draghi è stato decisivo».

Lascia un’eurozona più forte o più debole di come l’ha trovata?

«Mario ha fatto quello che doveva. Ma il problema non è Mario. Il programma dell’europa era costruire una rete di garanzia comune del debito, avviare il coordiname­nto delle politiche fiscali. Nessuna di queste cose è stata fatta. La mia impression­e è che oggi Draghi lasci un’unione più frammentat­a di quanto fosse qualche anno fa».

Ora tocca a Christine Lagarde. Una scelta giusta?

«A me non sarebbe venuta in mente. Però devo riconoscer­e che sì, è una buona scelta. Certo Mario ha una competenza enorme nella politica monetaria. Lagarde potrà fare valere la sua capacità di adattament­o, la sua flessibili­tà. Qualità che le tornerà utile per guidare la Bce».

E Draghi? Lo aspetta un futuro in politica?

«Non lo so davvero. Se devo rispondere d’istinto direi di no. Ma naturalmen­te posso sbagliare».

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Robert Rubin, 81 anni, è stato il segretario al Tesoro degli Stati Uniti tra il 1995 e il 1999 durante il primo e il secondo mandato dell’amministra­zione Clinton
A Washington Robert Rubin, 81 anni, è stato il segretario al Tesoro degli Stati Uniti tra il 1995 e il 1999 durante il primo e il secondo mandato dell’amministra­zione Clinton

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