ITALIANI
in fuga era?
«Cercavo me stesso altrove. E sempre era una migrazione, mai un viaggio».
Da adulto, come il Mario di «Due di Due», ha vissuto in campagna più che a Milano.
«Ho un casale fra i boschi umbri, dove mi viene da sopravvivere col minimo. Lì, scopro di aver bisogno sempre di meno. Per anni, non ho avuto il riscaldamento e ho preso l’acqua da un pozzo che quasi si esauriva d’estate».
Come nasce l’idea di diventare scrittore?
«A 11 anni, lessi I tre moschettieri e sentii che il romanzo era la dimensione che volevo abitare. Solo anni dopo, capii che l’unico modo per abitarla per sempre era scrivere».
Com’è fatta questa dimensione?
«È un luogo libero da tempo e spazio, in cui hai 11 anni ma ti identifichi con un venticinquenne guascone che sta a Parigi nel ‘600».
A meno di 30 anni, da assistente fotografo di Oliviero Toscani, si ritrovò autore di un libro con la quarta di copertina firmata da Italo Calvino. Come successe?
«Avevo già nel cassetto due libri che consideravo tentativi. Invece, Treno di panna aveva una voce mia e lo mandai a un po’ di case editrici. Mesi e nessuno risponde. Poi, un amico torinese mi fa: hai provato a farlo leggere a Italo Calvino? Mi sembrava follia, ma lui gli lasciò il manoscritto in portineria alla Einaudi. Fu così che ricevetti una sua lettera, ma tanto Calvino era meravigliosamente comunicativo quando scriveva, tanto era raggelante di persona: lo incontrai e disse forse due o tre parole».
Fu un esordio acclamato dai critici.
«Quel consenso mi lasciava interdetto: ero molto polemico verso il poco che sapevo del mondo delle lettere italiano. I miei riferimenti erano Ernest Hemingway, Francis Scott Fitzgerald, Jack Kerouac e, sul mio stile, influivano fotografia e cinema, soprattutto Robert Altman e Michelangelo Antonioni».
Con Antonioni scrisse un film mai uscito...
«Era il seguito di Blow-up, ambientato a Milano, ma lui morì prima che finissimo».
L’incontro con Federico Fellini?
«A un premio, a Rimini. Dopo, mi chiamò: aveva letto Uccelli da gabbia e da voliera e me ne parlò con generosità sconvolgente. Gli raccontai che Nanni Moretti voleva i diritti e non glieli avevo dati: mi pareva che non c’entrasse niente col protagonista. Al che, Fellini mi disse che dovevo imparare io a fare il regista e mi nominò suo assistente sul set de E la nave va».
Com’era Fellini visto da vicino?
«Amava avere una corte di cui essere affabu
L’esperienza da regista Mi imposero Carol Alt, che non sapeva recitare Claudia Mori disse che i soldi non erano un problema e invece mi ritrovai prigioniero di logiche commerciali
Le storie d’amore A fianco di Eleonora Giorgi era insopportabile trovarsi nel mirino dei paparazzi. Con Cecilia Chailly forse passai un po’ il confine fra vita privata e letteraria