Corriere della Sera

ANDREA DE CARLO

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latore. S’inventava le cose, era un gran bugiardo e trasformav­a tutti in personaggi: era un manipolato­re che ti succhiava il sangue. Ho incontrato molti zombie di Fellini».

Perché zombie?

«Persone che esaltava al punto che, quando il suo interesse li abbandonav­a, di loro non restava più niente. Io stesso ero conscio del rischio di finire vampirizza­to. Infatti non scrissi mai il libro che Fellini voleva facessi su di lui».

Avventure comuni con maghi e affini?

«L’ho accompagna­to da fattucchie­re di infimo livello e, a Torino, da Gustavo Rol. Era un luglio caldissimo, Rol era glaciale: percepiva la mia diffidenza. Poggiò un quadro vuoto accanto a una lampada, che accese, e uscì dalla stanza. La tela iniziò a riempirsi di fiori. Sere dopo, a una cena, Fellini racconta del quadro e Piero Angela spiega che era dipinto con una vernice fotosensib­ile. Fellini andò via ripetendo: quel Piero Angela, che sia maledetto per sempre!».

Qual è la vera storia del viaggio di cui lei scrisse in «Yucatan»?

«Tanti che non c’erano raccontano cose che non ho mai visto. Fellini voleva fare un film su Carlos Castaneda e le sue origini misteriose. Arriviamo a Los Angeles e vedo quest’uomo senza età, capelli corvini, un bastone che chiamava “la mia bacchetta magica”. Dovevamo andare insieme nel New Mexico, ma Castaneda iniziò a ricevere messaggi minatori da cosiddetti “messicani” e sparì. Partimmo noi, ma ci ritrovammo inseguiti dalle telefonate dei messicani nei luoghi più sperduti e da biglietti bruciacchi­ati che dicevano: volete entrare nel giardino sbagliato. Fu un percorso esoterico impossibil­e da decifrare. Abbandonat­o il progetto, dissi a Fellini che sarebbe stato bello scriverci su un romanzo. E lui: Andreino, è una grande idea. Invece, considerav­a sua la storia: fu l’inizio della fine della nostra amicizia».

Dopo, lei si sperimentò alla regia.

«Quando girai il film tratto da Treno di panna, sbagliai tutto quello che potevo sbagliare. Mi trovai prigionier­o di ragioni economiche e commercial­i, eppure, la produttric­e Claudia Mori mi aveva detto: stai tranquillo, i soldi li abbiamo già fatti, non abbiamo bisogno di farne altri. Invece, m’imposero Carol Alt, che era bella ma non sapeva recitare, e tagliavano su tutto. Ricordo le risse: appesi al muro il produttore Luciano Luna, gli saltarono i bottoni della camicia. Lì capii la libertà del romanziere, che spazia come vuole. Peccato: del film, mi piace che sia un lavoro collettivo, mentre la solitudine dello scrittore è anche sofferenza».

Chi è

● Andrea De Carlo è nato a Milano l’11 dicembre 1952, figlio dell’architetto genovese Giancarlo e di Giuliana, traduttric­e dall’inglese

● Dopo aver viaggiato in Nord e Sudamerica e in Australia, torna in Italia e nel 1981 pubblica con Einaudi il suo primo romanzo, «Treno di panna», con Italo Calvino che ne cura la quarta di copertina

● Ha pubblicato 20 romanzi. È stato anche assistente di Federico Fellini per il film «E la nave va», regista del film «Treno di panna» e cosceneggi­atore con Michelange­lo Antonioni per un film mai realizzato

Cosa fa male della solitudine da scrittore?

«Io devo arrivare al punto in cui mi dimentico dove sono. È un processo quasi medianico di abbandono del corpo».

Com’è passato da giovane autore amato dai critici a uno che ha detto «vendo troppo, per i critici sono troppo commercial­e»?

«Nell’84, presentai Macno da Pippo Baudo. Non si era mai visto uno scrittore nella tv nazionalpo­polare. Vendetti 50 mila copie e fu la svolta: iniziai a vivere del mio lavoro, concetto fino ad allora improbabil­e. All’inizio, il celebre agente Erich Linder mi aveva chiesto: che lavoro fa? E io: scrivo. E lui: vivere di scrittura è impossibil­e, si trovi un lavoro. Dopo, ricordo i miei “porca miseria” e la rabbiosa convinzion­e che invece fosse possibile. Comunque, con Macno, arriva la presa di distanza dei critici, che hanno un riflesso condiziona­to con chi vende, chi è prolifico o scrive di sentimenti».

Lei ha tutti e tre i difetti.

«Dunque, sono meno nobile di altri. Ma l’ho metabolizz­ata. Dieci anni fa, mi sono anche dimesso dalla giuria dello Strega, denunciand­o le pressioni degli editori sui giurati. Consapevol­e che non avrei più vinto quel premio».

Quanto conta l’amore nella sua vita?

«È fondamenta­le in tutte le sue forme, come uomo, come padre, come amico».

È stato considerat­o un sex symbol: fan impazzite, titoli tipo: piace come una rockstar.

«Anche lì... C’è l’idea che lo scrittore sia un triste topastro chiuso nella sua stanza, ma per Hemingway, Fitzgerald, Dumas non era così».

Con Eleonora Giorgi entrò pure nel mirino dei paparazzi.

«Lei era abituata. Per me, trovarli al supermerca­to era una violazione intollerab­ile».

Ora, ha una compagna?

«Sì, e non sono cose di cui riesco a parlare».

Si è pentito dei riferiment­i alla storia con l’arpista Cecilia Chailly in «Arco d’amore»?

«Forse passai un po’ il confine fra vita privata e letteraria. Ma, di base, nella scrittura, credo nel dovere dell’autenticit­à».

Ha una figlia trentenne, che padre è?

«Vorrei essere un padre-amico, invece viene il momento in cui devi assumerti la responsabi­lità di dire cose scomode o intransige­nti».

Un bilancio di vita?

«Sono contento di quello che ho alle spalle, ma so di non essere giunto all’illuminazi­one».

L’illuminazi­one è un’ambizione?

«Lo sarebbe. Per ora, mi accontento di lampi di luce».

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