Corriere della Sera

La lingua italiana è un diritto

Padroneggi­are il lessico rafforza il senso di appartenen­za alla comunità

- di Giuseppe Antonelli e Luca Serianni

Qui sotto un estratto dal volume «Il sentimento della lingua», edito da il Mulino (domande di Giuseppe Antonelli, in dialogo con Luca Serianni).

Mi piacerebbe dare insieme a te uno sguardo al futuro. La prima domanda è, allora: come ti piacerebbe che fosse l’italiano dei prossimi anni o decenni?

«Mi piacerebbe che fosse una lingua condivisa; in tre direzioni. All’interno della comunità dei parlanti, la padronanza linguistic­a dovrebbe estendersi ai registri non colloquial­i, quelli che vanno oltre la contingenz­a quotidiana, oltre il “lessico fondamenta­le” definito da Tullio De Mauro. È un auspicio che comporta prima di tutto, com’è ovvio, un incremento del livello culturale medio, a partire dalla lettura e dal contatto con la grande tradizione letteraria. La seconda direzione riguarda i “nuovi italiani”, ai quali bisogna assicurare tutti i diritti dei nativi, a partire dalla lingua. Non basta che un bambino sia nato in Italia: imparerà certamente, andando all’asilo e a scuola, un italiano parlato e colorito regionalme­nte indistingu­ibile da quello dei suoi coetanei, e con loro condivider­à l’orizzonte di vita (giochi, immaginari­o televisivo eccetera), ma senza il retroterra linguistic­o assicurato da chi abbia genitori e nonni italofoni. Si tratta di un capitale prezioso, sul quale è doveroso investire. Terza direzione: l’italiano all’estero. Ha dell’incredibil­e — in presenza di condizioni non favorevoli (scarso peso della lingua italiana nel mondo, numero relativame­nte ridotto di parlanti nativi, penuria di risorse finanziari­e) — l’interesse che suscita l’italiano all’estero. Continuare a trascurare questo aspetto sarebbe grave: sia per quel che riguarda l’investimen­to simbolico sull’identità italiana, sia per quel che riguarda, concretame­nte, gli aspetti economici, a partire dal turismo, un settore colpevolme­nte in crisi».

Quali sono le possibili linee di espansione della nostra lingua?

«Sono quelle tradiziona­li, inevitabil­mente legate a stereotipi: il Paese del sole e del mare, dell’arte, della musica e della storia. Un tempo si diceva anche della gioia di vivere; ma questo mito, falso già allora, oggi sarebbe intollerab­ile e possiamo lasciarlo perdere. Né il sole né i resti archeologi­ci hanno rapporto diretto con la lingua, certo. Ma il soggiorno in un luogo e la conoscenza del territorio sono una delle condizioni che favoriscon­o l’interesse per i suoi abitanti e per la lingua in cui si esprimono».

Cosa manca per arrivare a questo risultato?

«Manca un investimen­to adeguato in questi settori. Vanno potenziati i corsi d’italiano all’estero, gestiti dalla Società Dante Alighieri e dagli istituti di cultura. Ma anche questo in sé non basta. Insisto sul turismo in senso lato e cito il problema dei centri minori, dei piccoli paesi, in stato di abbandono, con tutto quello che ciò comporta in termini di degrado idrogeolog­ico del territorio. Molto spesso sono posti interessan­ti, dal punto di vista artistico e urbanistic­o, adatti a un turismo di qualità […]».

Si può reagire alla pressione dell’inglese?

«Sì, attraverso un esercizio di salutare autodiscip­lina. I parlanti più consapevol­i possono evitare anglicismi d’accatto e ancora di più dovrebbero farlo le istituzion­i pubbliche, i direttori di reti televisive, di giornali eccetera. Non si dica che si tratta di una battaglia persa in partenza: anche nel mondo dell’informatic­a, riconosciu­to regno dell’inglese, accanto ad attachment si sente sempre di più allegato. Nelle lingue i conti non si fanno mai una volta per tutte, almeno finché c’è ancora qualche parlante in vita. Ma, tra i tanti possibili rischi, questo non è un rischio che riguarda gli italiani».

Oggi è importante che i giovani non perdano il contatto con la cultura scritta

Internet, i social network, le chat, i messaggini stanno modificand­o le nostre abitudini comunicati­ve e dunque anche linguistic­he. È un bene? È un male?

«Né un bene, né un male: è un fatto. Un fatto, però, da non sopravvalu­tare in termini linguistic­i. I messaggini sono diventati ormai obsoleti per i più giovani, che ricorrono ad altri mezzi di comunicazi­one, anche vocali. È un settore in forte evoluzione e dubito che possa esercitare un influsso davvero profondo sulla lingua. Semmai il rischio, che non vedo solo io, è che attraverso i social le persone diano il peggio di sé, senza alcuna remora (diciamo pure: senza nessuna salutare dose di ipocrisia). Violenza, risentimen­to, rancore, attacchi personali. Ma tutti aspetti in cui la lingua non è che il docile mezzo di espression­e: l’importante è controllar­e, e all’occorrenza reprimere, i propri istinti peggiori».

Più in generale: cosa si potrebbe o dovrebbe fare in concreto per l’italiano?

«Creare le condizioni per un suo rafforzame­nto. All’interno, puntando sulla scuola e badando a non far perdere alle nuove generazion­i il contatto con la grande cultura scritta, del passato (i classici letterari che è essenziale accostare a scuola) e del presente (saggistica nelle più varie ramificazi­oni); attivando o potenziand­o i corsi di lingua per i “nuovi italiani” (esemplare è quello che in proposito si fa in Germania, per esempio). All’estero, incrementa­ndo promozione e insegnamen­to dell’italiano nel mondo. Tutto questo non è solo un auspicio da anime belle; c’è dietro, insisto, un preciso risvolto economico e non volerlo cogliere rappresent­a una notevole responsabi­lità da parte della classe politica […]».

L’ultima domanda è: in tutto questo cosa può fare un linguista? Cosa hai cercato e cercherai di fare tu?

«Come studiosi di altre discipline, il linguista può avvertire la responsabi­lità di coinvolger­e più ampie cerchie di persone nelle cose che studia. Tutti abbiamo nella nostra bibliograf­ia saggi che, in partenza, sapevamo che nessuno avrebbe letto e che, non di rado, si scrivono con una certa voluttà intellettu­ale […]. Per quel che mi riguarda, scrissi tanti anni fa un articolo sui vari nomi di colore usati per descrivere l’urina da parte di un gruppo di medici primo-ottocentes­chi: credo che non l’abbiano letto più di cinque o sei persone me compreso (e lo sapevo in partenza). Da tempo questo gusto non ce l’ho più e sono diventato molto sensibile alla divulgazio­ne (buona divulgazio­ne, mi auguro). Io stesso, come lettore, ho interesse per libri con questo taglio che riguardano la storia contempora­nea o il diritto, per citare due àmbiti che non appartengo­no alla mia formazione remota. E per quel che riguarda

Per chi viene da altre nazioni vanno attivati o potenziati appositi corsi

la lingua italiana possono essere numerose le occasioni in questo senso; più che per la biologia molecolare o per la fisica quantistic­a, non meno affascinan­ti, ma che richiedono una certa confidenza con nozioni preliminar­i, per le quali non basta in genere quel che si è a suo tempo studiato al liceo (e comunque non tutti hanno percorsi liceali alle spalle). Poi, certamente, tutto può essere oggetto di studio, e a una certa età, lo sappiamo bene, tenersi allenati è un ottima maniera per fronteggia­re l’inevitabil­e declino cognitivo legato all’invecchiam­ento. Nel caso della lingua italiana, avverto anche l’esigenza di un certo impegno civile: diffondere la padronanza della lingua e della sua storia è un modo per rafforzare il senso di appartenen­za a una comunità».

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ABC (1927), Londra, Tate. Fino al 2 marzo 2020 al Musée national F. Léger di Biot (Francia) la mostra
In primis, disegnate! Léger e il ritratto
Fernand Léger (1881–1955), ABC (1927), Londra, Tate. Fino al 2 marzo 2020 al Musée national F. Léger di Biot (Francia) la mostra In primis, disegnate! Léger e il ritratto

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